C’è davvero da rallegrarsi per la scelta del giudice sportivo di non punire Francesco Acerbi per il caso dei presunti insulti razzisti a Juan Jesus durante Inter-Napoli. Una sentenza giusta, perché, dice il giudice sportivo, mancavano le prove. Succede - anzi, dovrebbe succedere - questo con la giustizia: non si può far finire qualcuno sul patibolo solo per un sospetto. Quel sospetto bisogna dimostrarlo, anche quando la cosa è odiosa come un presunto insulto razzista, la cosa meno sportiva che si possa immaginare su un campo di calcio. E infatti un po’ meno giusto è il passaggio in cui si dà la colpa a Juan Jesus per non aver interrotto la partita dando il consenso per andare avanti, un’affermazione che risuona come quelle rivolte alle presunte vittime di stupro, poco credibili per non essersi ribellate, ci si perdoni il parallelismo. Ma tant’è.

Il punto fondamentale della vicenda Acerbi-Jesus (che ora rischia di finire in Tribunale, dati i rumors sulle intenzioni del giocatore del Napoli di denunciare il collega nerazzurro) è il senso della giustizia sportiva. Una giustizia che, a differenza di quella ordinaria - tranne nel caso di Jesus, evidentemente -, si basa sulla presunzione di colpevolezza e non su quella di innocenza, invertendo l’onere della prova: se tu sei innocente me lo devi dimostrare. Un cortocircuito folle, che garantisce condanne in abbondanza, e contrario allo Stato di diritto in cui ci troviamo. Non è un’invenzione di chi scrive - che pur non essendo di fede interista plaude alla scelta di far valere il ragionevole dubbio -, ma una massima della Figc, che sul proprio sito chiarisce il proprio modus operandi: nel processo sportivo, dice, lo standard probatorio «non deve spingersi fino alla certezza assoluta della commissione dell’illecito e il superamento di ogni ragionevole dubbio, come invece è previsto dall’ordinamento penale». Il che significa che una sentenza come quella che ha riguardato Acerbi sarebbe stata più che prevedibile in un’aula di giustizia, un po’ più inattesa se pronunciata da un giudice sportivo.

A stabilire il principio è il Collegio di Garanzia del Coni, che a sezioni unite ha affermato che «per ritenere la responsabilità da parte del soggetto incolpato di una violazione disciplinare sportiva non è necessaria la certezza assoluta della commissione dell’illecito – certezza che, peraltro, nella maggior parte dei casi sarebbe una mera astrazione – né il superamento del ragionevole dubbio, come nel diritto penale. Tale definizione dello standard probatorio ha ricevuto, nell’ordinamento sportivo, una codificazione espressa in materia di violazione delle norme anti-doping, laddove si prevede che il grado di prova richiesto, per poter ritenere sussistente una violazione, deve essere comunque superiore alla semplice valutazione della probabilità, ma inferiore all’esclusione di ogni ragionevole dubbio».

La giustizia sportiva ha scelto di condannare anche in assenza di reati codificati - come le plusvalenze, un reato che una sentenza ha definito aleatorio, dal momento che il valore di un calciatore «è dato e nasce in un libero mercato, peraltro caratterizzato dalla necessità della contemporanea concorde volontà delle due società e del calciatore interessato». Ma c’è di più: mentre la giustizia ordinaria non consente di essere giudicati due volte per lo stesso fatto, la giustizia sportiva riesce a far anche questo, con lo stesso giudice che può smentire se stesso dichiarando una condotta punibile dopo aver detto l’esatto opposto, in virtù dell’assenza di una norma del codice che preveda il fatto reato. Pura poesia. Ci sarebbe anche da spiegare perché, in qualche caso, la giustizia sportiva sia intervenuta a campionato in corso e perché in altri no. Ma questo è un altro discorso e le domande sono già troppe. C’è solo da augurarsi che il garantismo appena nato non sia già finito.