L’avvio del dibattito sulle riforme sarà la più grande prova di carattere di Giorgia Meloni. Innanzitutto perché la strada delle riforme è lastricata di fallimenti, che non hanno risparmiato, negli scorsi quarant’anni, leader del calibro di Craxi, De Mita, D’Alema, Berlusconi e Renzi. Se già cambiare il fisco, le pensioni o la politica economica è impresa titanica, cambiare le istituzioni è una sfida al quadrato. Anche perché il modo in cui funziona la macchina del governo condiziona la possibilità di farla andare e, fuor di metafora, di dare risposte strutturali per il Paese e non meramente congiunturali con l’alibi dell’emergenza di turno.

Ma la sfida è grande anche per il suo significato simbolico. Che un leader di destra, proveniente da una tradizione che i suoi avversari non cessano quotidianamente di demonizzare, cambi questa Costituzione, “nata dalla resistenza”, è una fatto per molti oppositori del tutto destabilizzante. È facilmente prevedibile che battaglia infurierà e si connoterà di contenuti ideologici che poco hanno a che fare con il merito delle questioni e anzi rischieranno, come accaduto in passato, di pregiudicare la possibilità di successo e, ancor più, di buon successo. Per questo la Premier ha di fronte a sé la prova di carattere più importante tra quelle sinora affrontate e superate.

I rischi per la Meloni sono due. Il primo è quello di non riuscire a tenere il dibattito sul merito delle questioni, subendo gli attacchi concentrici della retorica allarmistica, sfruttata, per le più diverse ragioni, non solo dagli oppositori politici, ma anche dai numerosi titolari di vested interest, di interessi costituiti. Nell’infuriare della polemica la tentazione di lasciar perdere sarà il fantasma che continuerà a insinuare il dubbio che non valga la pena. E che, alla fine, sia meglio mollare accontentandosi del posto che, nella storia recente, ci si è guadagnati.

Questo rischio sembrerebbe il meno incombente. Le prove di carattere sinora non sono mancate. Meloni deve il suo successo anche all’immagine di determinazione che è riuscita a diffondere. Ma la politica è una brutta bestia e ci sono momenti in cui si è costretti ad arrendersi all’evidenza. È successo ai più grandi, non sarebbe certo un esito infamante.

Il rischio più immediato è, però, un altro. Non sappiamo ancora quale sarà la proposta sulla quale si orienterà la maggioranza. Ma sappiamo con certezza che, quale che sia, richiederà di valutare mediazioni perché rimanga aperto il dialogo con l’opposizione, che, nel caso delle riforme, è ovviamente un ingrediente irrinunciabile perché esse siano quanto più legittimazione. Tanto più se la probabilità di un referendum finale è, allo stato, altissima. Il vero problema però, è quello di aver chiaro il punto di rottura, oltre il quale le mediazioni e il dialogo non possono essere condotti. In una materia come quella delle riforme il diavolo si nasconde nei dettagli. Perché la camaleontica capacità degli attori del gioco politico di sterilizzare gli effetti del cambiamento è fortissima. E si serve di qualunque mezzo.

Identificare il punto di rottura oltre il quale non si può andare fa la differenza tra una riforma vera e una finta, ininfluente. Non sarà facile stabilire i paletti, complici le sirene della retorica unanimistica e l’ingegno dei sabotatori, che con un comma o un’eccezione alla regola, sono in grado di aprire varchi capaci di risucchiare nell’abisso dello status quo qualsiasi serio tentativo di innovazione.

Mentre infuria la battaglia politica, insomma, non si può perdere, nemmeno per un attimo, l’attenzione a ogni singolo dettaglio tecnico. E concessioni, per l’apprezzabile desiderio di “de-escalare” le tensioni, possono rivelarsi micidiali, propiziando un esito finale che, nei fatti, si ridurebbe, tutt’al più, a una semplice bandierina, piantata sull’involucro vuoto di un cambiamento inconsistente.

Nel dosare la gestione di processi così complessi, alla fine, i leader sono comunque soli. Perché è solo sulle loro spalle che grava la responsabilità ultima della decisione in alternativa al cedimento. Anche per questo la variabile del carattere diventa fondamentale. E la Meloni, con chi sarà disposto a sostenerla sino alla fine, sarà anche sola, perché al momento non sembra che, dall’altra parte, l’opposizione sia pronta a raccogliere l’opportunità del cambiamento. A parte il gruppetto di Azione e Italia Viva, che anche sul punto, però, sembra percorrere strade ormai diverse, la deriva assunta da Pd e Cinquestelle sembra andare in tutt’altra direzione. Scommettere sul fallimento, contribuendo a generarlo utilizzando l’armamentario retorico della difesa della Costituzione più bella del mondo, ma soprattutto, immaginando che la competizione elettorale a sinistra si giochi soprattutto sull’eccellere nell’opporsi.

Non è ovviamente uno scenario scontato. Ma le avvisaglie ci sono tutte. Ed è un vero peccato. Per l’opposizione, perché mostrerebbe una preoccupazione di respiro assai più corto di quanto i suoi elettori meriterebbero. E per la maggioranza, perché un tale atteggiamento renderà l’individuazione del punto di rottura di cui parlavo ancor più problematico.

I processi di riforma costituzionale sono lunghi. Nella nostra storia recente l’interlocuzione anche costruttiva con gli avversari non ha impedito che nel medio periodo riemergessero i rigurgiti delle convenienze elettorali, travolgendo ogni progresso e compromesso ottenuto. Con un’opposizione insicura e strabica, che guarda cioè alla maggioranza, ma anche alle proprie contorsioni interne, il rischio di concedere molto, per poi non ritrovarsi nulla è ancora più alto.

Lo slalom tra determinazione e disponibilità al dialogo, per Meloni, è appena iniziato. Le tentazioni saranno potenti. C’è da sperare che lo sia anche il carattere. Perché una cosa è certa: l’Italia ha bisogno di riforme e di riforme istituzionali ancora di più. Ma la beffa più grande di non realizzarle, sarebbe quella di realizzarne di inutili.