L’attrice Benedetta Porcaroli dice di avere il cuore a pezzi, che il massacro di Gaza le ha tolto il sonno e che la sua vita è cambiata, la regista Carolina Cavalli spiega di non riuscire più a concentrarsi sul lavoro, un po’ come la fotografa statunitense Nan Goldin che si sente «frantumata nell’anima», mentre un’altra attrice, la britannica Juliet Stevenson, ammette di «piangere ogni giorno».

Sono dichiarazioni intime, profondamente emotive, senza dubbio sincere e che raramente si ascoltano a proposito di altre guerre in corso. Nessun personaggio pubblico racconta o ha mai raccontato di non riuscire a dormire pensando alle 150mila vittime civili per il conflitto in Sudan o le altre centinaia di migliaia in Tigrai (dalle 300mila al mezzo milione secondo le stime più pessimiste), numeri dimenticati di regioni semi-invisibili e di cui a malapena conosciamo il nome. Ma anche volgendo lo sguardo alla ben nota Ucraina non si trova traccia di una simile empatia, nessuna o pochissime manifestazioni per i civili di Mariupol, di Bucha e altre città colpite dai russi.

Non si tratta di benaltrismo, ognuno è libero di aderire alla causa che vuole e va da sé che il governo criminale di Netanyahu deve essere fermato con ogni messo necessario, ma di comprendere le ragioni di tale centralità, perché ogni riflessione, ogni discussione, iniziativa che riguarda quella minuscola porzione di Medio Oriente genera in automatico tsunami emozionali, polarizzazioni rabbiose e duelli tra bande.

Alla base c’è un elemento archetipico; Gerusalemme, Betlemme, Hebron e la Cisgiordania sono luoghi carichi di significato per ebrei, cristiani e musulmani, la “terra santa” così cara alle religioni abramitiche, quelle del “Libro”, è un grumo di simboli millenari teatro di scontri e conquiste.

Il conflitto israelo-palestinese è anche il punto in cui si incontrano e si scontrano i traumi fondativi dell’Occidente. Da un lato la Shoah, l’olocausto degli ebrei che ha marcato per sempre la coscienza europea e che resta ancora oggi una ferita aperta. Dall’altro l’esperienza coloniale che ha segnato il destino della Palestina e del mondo arabo in generale, a cui oggi viene da molti associato lo Stato ebraico. La legittima aspirazione degli ebrei ad avere una loro patria viene così messa in secondo piano dalle colpe secolari dell’Occidente di cui portano inevitabilmente il fardello.

Israele appare, agli occhi dei suoi sostenitori, come un avamposto di democrazia circondato da nemici ostili e fanatici, l’unica oasi di libertà in Medio Oriente; ai suoi critici come una macchina brutale che esercita occupazione e segregazione irridendo il diritto internazionale nella piena impunità. Non c’è alcuno spazio per le sfumature.

La guerra assume così un valore morale e simbolico che va ben oltre la contingenza militare e le cronache quotidiane: è una specie di “conflitto perfetto”, perché condensa religione, memoria, identità culturale, storia e ideologia. Ogni notizia, ogni immagine, ogni racconto diventa un catalizzatore emotivo globale, stimolando angoscia, indignazione e riflessione immediata.

Nessun altro dossier offre un repertorio simbolico così immediato e così polarizzante: apartheid, nazismo, resistenza, terrorismo, decolonizzazione. Ogni parola porta con sé un intero universo ideologico e in questa stratificazione il cortocircuito è inevitabile. Uno degli esempi più flagranti è il rovesciamento vittima-carnefice incarnato da Israele paragonata proditoriamente al Reich hitleriano, i cosiddetti «nazi-sionisti» come vengono chiamati gli ebrei israeliani, un paragone che nessuno ha mai osato compiere con nessun altra nazione, come ad esempio gli Stati Uniti le cui guerre dagli anni 50 a oggi (Corea, Vietnam, Iraq e Afghanistan) hanno causato cinque milioni di vittime, in gran parte civili.

A tutto questo si aggiunge la longevità di un conflitto in corso da ottant’anni tra guerre convenzionali, intifade, attacchi terroristici, annessioni territoriali, negoziati falliti e speranze tradite: ogni nuova fiammata di violenze non è percepita come un episodio isolato, ma come la continuazione di un dramma senza fine che ogni incorpora la tragedia precedente. Un “nodo irrisolto” che nessuna forza sul pianeta sembra in grado di sciogliere.