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Di fronte alle proteste e alla pressione americana il Primo ministro Netanyahu ha dunque deciso di sospendere, per qualche settimana, la sua iniziativa di riforma della giustizia. E’ stata una scelta opportuna, ma lascia la questione aperta.
L’esperienza politico-istituzionale israeliana è una concentrazione di paradossi. E’ un paese dalla storia unica in un contesto geopolitico unico e, nello stesso tempo, è strutturato ispirandosi al modello delle democrazie occidentali. Ha una forma di governo parlamentare, ma è forse quello che, negli anni recenti, ha cercato con più determinazione di modificarla per evitare le degenerazioni che il parlamentarismo produce in contesti politici molto frammentati e lacerati da contrapposizioni che non sono solo tra destra e sinistra, ma anche legate a divisioni etnico-religiose.
Ha sperimentato, unico paese al mondo, la via dell’elezione diretta del Primo ministro, ma ha dovuto fare marcia indietro nel giro di qualche anno, perché la soluzione, almeno come pensata all’epoca, non aveva funzionato. Ha poi introdotto la sfiducia costruttiva per cercare di arginare l’instabilità dei governi perennemente di coalizione, ma la cosa non ha prodotto grandi risultati (la durata media dei governi se la batte con quella dei nostri; quindi è molto breve). E’ un laboratorio costituzionale in continua attività, senza che però nessuna soluzione sia mai stata decisiva per arginare la drammatica instabilità (cinque elezioni negli ultimi quattro anni). L’eccezionalità della sua situazione continua ad avere la meglio.
Il tema della riforma della giustizia va calato in questo contesto e anche qui i paradossi non mancano. Israele non ha una Costituzione nel senso in cui lo intendiamo noi. All’epoca della fondazione si decise di non percorrere quella strada e di ispirarsi piuttosto al modello britannico (altro paese senza Costituzione scritta). Ma con una differenza. Nel corso degli anni sono state approvate una serie (poco più di dieci) di “leggi fondamentali” che hanno riguardato varie materie che si potrebbero definire “costituzionali” (dall’organizzazione dello stato alla tutela dei diritti). Questa quasi-costituzione articolata in più atti ha però una particolarità per nulla secondaria. Queste leggi fondamentali non sono formalmente superiori alle altre leggi. O meglio, a parte pochissimi articoli, il resto può essere modificato con una normale legge del Parlamento. E infatti quelle “leggi fondamentali” vengono costantemente modificate. Il modello prescelto, insomma, era quello della c.d. “sovranità del parlamento” la cui volontà, come espressione del principio democratico-rappresentativo, non dovrebbe incontrare limiti.
Nel corso degli anni, però, la situazione è cambiata. La Corte Suprema Israeliana, dopo aver a lungo rifiutato di compiere un sindacato sulle leggi, ha cominciato di propria iniziativa a farlo. Invocando la natura “costituzionale” delle leggi fondamentali (oltre che principi ricavati dalla tradizione del Common law) ha cominciato a colpire l’attività legislativa imponendo limiti e restrizioni. In una celebre decisione del 1995 Bank Mizrahi v. Minister of Finance questo potere è stato definitivamente affermato. La conseguenza di questo attivismo giudiziale, in assenza di regole scritte, è che di fatto il Parlamento non solo non può ripristinare una legge annullata dalla Corte suprema, ma non può nemmeno cambiare le norme sulla base delle quali quella legge è stata annullata. Con nessuna maggioranza.
Non sorprende dunque che, da allora, forti siano state le tensioni tra giustizia e politica, o meglio tra gli organi della giurisdizione e quelli direttamente espressi dalla sovranità popolare. Conflitti accentuati dalla circostanza che la Corte suprema ha poteri di sindacato molto estesi (non solo le leggi, ma anche decisioni amministrative e atti del governo) e il suo intervento può essere attivato anche sulla base della “petizione” di qualsiasi persona.
Ecco dunque un altro paradosso: un sistema in cui, pur in assenza di una Costituzione superiore alla legge, la Corte suprema fa il giudice costituzionale, spesso tutelando effettivamente diritti, ma anche intervenendo su atti politici senza che ci sia un chiaro “binario” che definisca i limiti del suo intervento. E, senza quel binario, tutto ovviamente è affidato a regole, valutazioni e consuetudini che lasciano una ampio margine di apprezzamento a chi le deve applicare (la Corte stessa). Anche la sua composizione è particolare, perché frutto della proposta di un Comitato di selezione composto anche da giudici della Corte stessa oltre che, in misura paritaria, da rappresentanti del governo, del parlamento e dell’avvocatura. Non sorprende che un assetto del genere generi conflitti tra i poteri e dibattiti anche tra gli studiosi. In gioco infatti c’è l’eterno dilemma del costituzionalismo contemporaneo: quale equilibrio tra la sovranità popolare e il potere di controllo e di limitazione da parte di organi giurisdizionali (più o meno esterni) al circuito demoratico-rappresentativo.
Ciò non vuol dire necessariamente che le proposte in discussione, avanzate dal governo israeliano, siano la migliore soluzione, ma certamente un problema esiste (come molti studiosi riconoscono) e in qualche modo va affrontato. L’equilibrio tra i poteri dev’essere appunto un equilibrio, mentre la vicenda in corso e l’estrema conflittualità che si è scatenata dimostrano che, invece, il rischio è quello di un pendolo che oscilla tra un estremo e l’altro. Tra dittatura della maggioranza e governo dei giudici (titolo del celebre libro di Édouard Lambert). Con il rischio che a furia di oscillare si trasformi in una palla da demolizione come quelle utilizzate per abbattere gli edifici, lasciando sul campo soltanto macerie.
Netanyahu ha fatto bene a fermarsi, ma congelare la situazione e basta non impedirà che la wrecking ball continui a oscillare. Israele è un cumulo di paradossi, ma è anche un campanello d’allarme, perché quel problema di equilibrio lo vivono tutte le democrazie, soprattutto quelle che offrono un sistema politico fragile, instabile, esposto ai condizionamenti, a volte concentrici, di interessi forti e pulsioni populiste. Ogni riferimento è puramente casuale.
In questo senso Israele, pur nella sua eccezionalità, è anche una spia importante per tutte le democrazie. Eccezione e paradigma. Un paradosso appunto.