L’art. 68 comma 3 Cost., relativo alle intercettazioni dei parlamentari, rappresenta una norma decisamente ambigua, anzi polivalente, oggetto di almeno tre diverse letture tra loro incompatibili.

Una prima lettura, tutt’altro che arbitraria, intende il precetto costituzionale come una disposizione derogatoria ai principi generali, volta ad istituire un privilegio o, se si preferisce, una prerogativa parlamentare, come tale non suscettibile di un’interpretazione estensiva oltre lo stretto significato testuale. Si deve allora concludere che la norma si limiti a vietare di “sottoporre” a intercettazione il parlamentare, ossia di rendere le sue utenze telefoniche oggetto di un provvedimento di intercettazione, senza peraltro garantire ai suoi colloqui privati un’assoluta immunità rispetto ad intercettazioni disposte nei riguardi di altre utenze.

Se il parlamentare, la cui utenza non è intercettata, colloquia con persone nei cui confronti è in atto una legittima intercettazione, poco importa chi sia il chiamante: l’intercettazione è validamente svolta nei riguardi di entrambi e il materiale così ottenuto è legittimamente acquisito al processo (così, ad es., F. Cordero, Procedura penale, IX ed., Giuffrè, 2012, p. 861 s.). Da questo punto di vista, una legge che estenda il privilegio parlamentare oltre gli stretti confini dell’art. 68 comma 3 Cost. appare sospetta di incostituzionalità; e tale, infatti, si rivela l’art. 6 della legge n. 140 del 2003 nella parte in cui subordina all’autorizzazione della Camera competente l’uso probatorio delle conversazioni o comunicazioni intercettate quando sia, anche occasionalmente, intervenuto un parlamentare.

Una seconda e opposta interpretazione estende l’ambito dell’art. 68 comma 3 Cost. sino ad affermare che, qualunque cosa abbia detto il parlamentare in una conversazione intercettata, sia radicalmente inutilizzabile, a meno che nei suoi riguardi fosse stata chiesta e ottenuta l’autorizzazione della Camera di appartenenza (così, ad es., O. Mazza, “Così la Consulta tutela le immunità dei parlamentari”, in Il Dubbio, 29- 12- 2023); conclusione non a torto motivata dal rilievo che un’esegesi restrittiva aprirebbe la via a facili elusioni del precetto costituzionale.

Tra le due antitetiche letture la recente sentenza della Corte costituzionale (n. 227 del 2023) ne propone una terza di carattere compromissorio, suggerita non tanto dall’art. 68 Cost., quanto dalla legge n. 140 del 2003. Per i colloqui del parlamentare con una persona intercettata, occorrerebbe distinguere tra intercettazioni “mirate”, ossia preordinate alla raccolta di prove a suo carico, trattandosi in sostanza di persona indagata, e intercettazioni “occasionali”, ossia non finalizzate alla ricerca di prove a carico del parlamentare.

Nel primo caso, l’autorità giudiziaria sarebbe tenuta a chiedere in via preventiva l’autorizzazione alla Camera di appartenenza; nel secondo, l’autorità giudiziaria dovrebbe limitarsi a chiedere l’autorizzazione solo qualora intenda utilizzare le prove eventualmente emerse nei riguardi del parlamentare. Come si accennava, è un’esegesi che trova un parziale appiglio nella legge n. 140 del 2003. L’art. 6 conferma la scelta della Corte costituzionale in ordine alle intercettazioni “occasionali”, subordinandone l’uso probatorio all’assenso della Camera, ma lascia aperto il quesito sulla sua compatibilità con l’art. 68 Cost.; quanto alle intercettazioni “mirate”, l’art. 4, parlando di «eseguire nei confronti di un membro del Parlamento intercettazioni», ripropone la medesima incertezza del testo costituzionale. Resta il fatto che la distinzione praticata dalla Corte, pur attentamente motivata e non priva di intrinseca razionalità, risulta estranea all’art. 68 comma 3 Cost. (comunque lo si intenda), risolvendosi in una discutibile integrazione del precetto costituzionale, costruita sulle sfuggenti “intenzioni” dell’autorità procedente.

Il rischio è di interpretare la Costituzione attraverso la legge ordinaria, anziché viceversa. In breve, per quanto autorevoli, nessuna delle letture svolte sull’art. 68 comma 3 Cost. risulta decisiva, né tanto meno vincolante. Neppure quella della Corte costituzionale: vincolante è unicamente quanto risulta dal dispositivo della sentenza (tipico comando), non dalla motivazione (tipico esercizio di ragione) dove è contenuta l’interpretazione delle norme costituzionali, le quali, secondo la gerarchia delle fonti del diritto, sovrastano anche il supremo giudice che ne è il custode. Se così non fosse, la Consulta sarebbe di fatto investita di un potere di revisione della Costituzione, ai cui precetti potrebbe attribuire con efficacia vincolante qualsiasi significato, anche il più lontano dal dato testuale.

A questo punto, a chiarire il controverso senso della norma costituzionale, dovrebbe intervenire il Parlamento con una legge, a sua volta necessariamente costituzionale, dati i sospetti di illegittimità che graverebbero su una semplice legge ordinaria, a seconda del significato attribuito all’art. 68 Cost. Importante non è tanto la direzione in cui si svilupperà l’intervento (restrittivo o estensivo che sia) quanto la risoluzione dell’attuale e intollerabile incertezza sui sibillini confini della prerogativa parlamentare: una disposizione costituzionale di tale rilevanza non può restare esposta all’arbitrio dell’interprete, con il rischio che su essa cada un gran discredito, proprio a causa dei dubbi che genera in via esegetica.

Infine, un rilievo critico sul concetto di “utilizzazione” delle prove seguito dalla Corte costituzionale. Quando una prova può dirsi “utilizzata”? Senza dubbio, nei provvedimenti cautelari, nei riti deflattivi e nell’alternativa condanna/ proscioglimento. Quanto all’alternativa decisoria nell’udienza preliminare, la risposta se si utilizzino o no prove è netta. Sì, per la pronuncia della sentenza di non luogo a procedere, che rappresenta il termine “marcato”, perché i suoi presupposti sono definiti dalla legge («quando gli elementi acquisiti non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna» : art. 425 comma 3 c. p. p.); e, come tali, vanno compiutamente provati secondo le regole sull’onere della prova che cade per l’appunto sul non luogo a procedere. No, per il rinvio a giudizio, termine puramente “consequenziale”, ossia da adottare per il fatto stesso che non siano provati i presupposti del “non luogo”. La legge, infatti, prevede quando si debba pronunciare il non luogo e non quando disporre il rinvio a giudizio, che costituisce un epilogo di mera transizione processuale, privo di autonomia probatoria: le prove, legittimamente acquisite, saranno ‘ utilizzate’ nel dibattimento.

Non a caso il rinvio a giudizio è immotivato, non impugnabile e validamente disposto, ai sensi dell’art. 429 comma 2 c. p. p., anche in assenza di un’indicazione sommaria delle fonti di prova ( sui termini ‘ marcato’ e ‘ consequenziale’ v. P. Ferrua, Tre temi corderiani, in Corderiana, a cura di E. Catalano e P. Ferrua, Giappichelli, 2023, p. 74 s.).