«I processi sono una cosa seria», spiega il procuratore capo di Bologna Giuseppe Amato al Corriere della Sera in un’intervista che dovrebbe essere incorniciata in ogni scuola della magistratura. Il tema è la devastante alluvione che ha colpito la Romagna e le presunte responsabilità o “colpe” del disastro in cui hanno perso la vita 15 persone.

Incalzato dal giornalista che gli chiede fino a dove può arrivare l’indagine penale e come è mai possibile che la procura abbia deciso di non procedere, Amato evoca uno dei principi cardine dello Stato di diritto: «La responsabilità è individuale, bisogna che sia riconducibile a soggetti definiti», per poi tratteggiare i compiti e i limiti dell’azione penale e dei suoi esecutori: «Non si può avviare un’indagine per ogni evento naturale, non è questo il ruolo del pm, almeno come lo intendo io. I muscoli si mostrano se uno ha una ragionevole intenzione di usarli, mostrarli per mostrarli non ha senso».

Anche le rinuncia a convocare dei periti per accertare che gli alvei dei fiumi romagnoli fossero stati puliti è giustificata da un altro importante principio: «Se ritieni che non ci possano essere delle conseguenze giuridiche è inutile sviluppare un accertamento di natura tecnica». In altre parole, non si apre un’inchiesta solo per soddisfare gli appetiti dell’opinione pubblica e il suo bisogno di individuare i colpevoli. Visibilmente frustrato dalle risposte del magistrato l’intervistatore prova ad allargare il campo dell’indignazione, chiedendo se si arriverà mai a indagare i responsabili del cambiamento climatico. Esemplare la replica: «I processi sono una cosa seria, non una ricostruzione filosofica rispetto alla quale chiunque può di dire tutto e il contrario di tutto».

In epoca di populismo penale e processi mediatici, le parole semplici del procuratore Amato hanno il merito di spezzare il circolo vizioso del giustizialismo alimentato da un giornalismo che ama molto più gli scandali dei fatti.