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Matteo Piantedosi, ministro dell'Interno
La vigilia del 2 giugno, a festeggiare la Repubblica nei giardini del Quirinale c’erano praticamente tutti quelli che contano nel governo e nello Stato italiano. Due giorni prima, a festeggiare per l’inaugurazione d’una nuova caserma dei carabinieri ad Africo c’era il ministro dell’Interno Piantedosi, il comandante generale dell’Arma, il governatore della Calabria Occhiuto, le massime autorità militari e civili della Regione. Non c’erano, però, i cittadini. Rispetto al Quirinale, Africo è lontana così come l’Aspromonte, la Locride e la Calabria intera. Ma ciò che è successo ad Africo rappresenta una spia luminosa di come lo Stato venga percepito in non poche realtà del Sud.
Il giorno dell’inaugurazione della caserma tutto sembra svolgersi secondo copione, anche se la cerimonia sembra piuttosto sfarzosa: un tappeto rosso steso tra la tenda azzurra delle autorità e l’ingresso della nuova caserma, un centinaio di militari in alta uniforme schierati sull’attenti e pronti a battere i tacchi, i bambini che sventolano le bandierine, la fanfara che suona, un piccolo gruppo di persone sotto il palco. Ma, incredibilmente, i bambini presenti non sono di Africo, perché i genitori non li hanno mandati a scuola, e il “pubblico” non è composto da persone del paese ma da “collaboratori” dei politici presenti, giornalisti, poliziotti in borghese. I cittadini di Africo, se ci sono, si contano sulle dita d’una sola mano.
Le autorità che affollano il palco fanno finta di nulla, anzi innestano il pilota automatico e fanno i loro discorsi parlando della caserma come di una “forte presenza dello Stato”, di “presidio della legalità e della democrazia”, di “baluardo contro la criminalità”.
Hanno recitato la loro parte, rinunciando a capire perché la popolazione di Africo ha rapporti così difficili con lo Stato... E non mi riferisco allo Stato fondato sulla Costituzione di cui parlano i libri di scuola e di cui anche i cittadini di Africo sentirebbero un gran bisogno, ma a quello “effettuale”, che si presenta materialmente con Tribunali, caserme, carceri, piuttosto che ospedali, scuole. È un apparato politico- burocratico di tipo coloniale. Contro tale Stato, gli africoti combattono una guerra antica sin da quando abitavano nel cuore dell’Aspromonte.
Ad Africo vecchia le case erano tuguri, le scuole pollai, mancavano il medico, la strada e l’acqua. Però, c’era una bella e robusta caserma che ancora fa bella mostra di sé, ma non era stata costruita a tutela degli africoti, anzi li abbrutiva e poi li mandava in carcere perché bruti. Una storia certamente vecchia ma per alcuni versi molto attuale. Ora si cercherà di spiegare che tutto ciò è accaduto con la presenza della ’ ndrangheta, che esiste ed è forte anche perché ha fatto comodo a molti. Ma se fosse vero che la ’ ndrangheta con un sol cenno può dare ordini a migliaia di abitanti, non sarebbe una vittoria della mafia, ma una grave, gravissima sconfitta della strategia totalizzante dell’antimafia, incapace di andare oltre le leggi eccezionali per il Sud.
Sono convinto che ci debba necessariamente essere altro, m in questa storia “africota”, che poi è storia dell’Aspromonte, della Locride e della Calabria. Forse, una storia di pastori che, costretti a meditare nei profondi silenzi dei loro monti e delle loro valli, hanno scoperto la terribile verità sul ruolo di pezzi importanti dello Stato nella loro terra. Hanno scoperto il gioco truccato che, nel Sud più che altrove, riconosce ad una minoranza di “tutelati” il diritto di tosare e mungere la restante umanità come si fa con le pecore.
Ora lo Stato deve e può decidere se la nuova caserma sarà una specie di Forte Apache in territorio nemico. Non servirebbe, perché se è vero che non ci può essere Stato senza le pubbliche Istituzioni è altrettanto vero che Questi non può esistere senza popolo. Ed è ancora più vero che non può esistere una lotta vincente contro le mafie senza il sostegno convinto dei cittadini.