In un Paese saldamente democratico i media avrebbero dovuto stigmatizzare, se non censuare, la notizia della ignobile petizione in cui si sostiene la presunta incompatibilità fra il ruolo di professore universitario e quella di avvocato difensore di Filippo Turetta, indagato per l’omicidio di Giulia Cecchettin. In Italia, invece, la notizia ha avuto ampio risalto, certamente maggiore rispetto alla netta e condivisibile risposta della Rettrice dell’Università di Padova che ha semplicemente richiamato elementari principi giuridici (la difesa è un diritto di tutti) nel respingere sdegnatamente la delirante richiesta di destituzione del prof. Caruso. Già questo disallineamento delle notizie meriterebbe una riflessione sul pericoloso scivolamento dell’informazione, comprese le maggiori testate nazionali, verso il modello scandalistico dei tabloid inglesi. Al netto delle distorsioni indotte dal processo mediatico, o peggio ancora social- mediatico, la vicenda si presta ad almeno due distinti piani di lettura.

Il primo concerne la plastica rappresentazione del degrado morale e culturale del dibattito pubblico sui temi della giustizia penale. Dopo anni di retorica giustizialista e populista elevata a programma politico dall’allora partito di maggioranza relativa, dopo le sgrammaticature di un diritto penale rafforzato dall’anafora del reato penale propinata da un Ministro della Giustizia che non era nemmeno in grado di distinguere fra dolo e colpa, dopo imputati ritenuti indifendibili in ragione del reato loro ascritto, di leggi destinate a spazzare, il minimo che potesse capitare era l’assimilazione del difensore con il suo assistito. In questo pensiero distorto si annidano, a ben vedere, una serie di passaggi impliciti: l’indagato, per ciò solo, è colpevole, indipendentemente da una sentenza di condanna, come tale non ha diritto alla difesa, ma deve solo sottoporsi all’esecuzione di una pena possibilmente esemplare, mentre il difensore è un complice processuale che si frappone indebitamente fra il crimine e la giusta punizione. Un cortocircuito che mette in discussione tutti i valori costituzionali.

E’ certamente straniante sentire il bisogno di ribadire, nell’anno 2024, che l’avvocato difensore svolge una funzione pubblica riconosciuta dalla stessa Corte costituzionale, che la difesa è essenziale per integrare il modello del giusto processo, che ogni accusato, anche il reo confesso, ha diritto a un accertamento di responsabilità che si svolga nel rispetto dei principi fondamentali, a partire dalla presunzione d’innocenza, che il diritto di difesa è un diritto tiranno, non bilanciabile con nessun’altro valore, essendo inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. La barbarie che trasuda dal populismo giudiziario si può arrestare solo facendo comprendere chiaramente all’opinione pubblica che l’avvocato è il valoroso difensore di questi diritti fondamentali, difende i diritti del suo assistito che sono i diritti di tutti i cittadini dinanzi alla pretesa punitiva dello Stato, in definitiva è il presidio insostituibile della civiltà giuridica scolpita nella nostra Costituzione.

A onor del vero, la confusione concettuale fra diritto punitivo e processo non è solo il frutto avvelenato della retorica giustizialista, ma è anche il portato di un approccio culturale che si va diffondendo persino nel mondo accademico, come testimonia il comunicato di solidarietà dell’Associazione italiana dei professori di diritto penale, secondo cui ' la difesa che sta esercitando Caruso, legittimamente, non può far dubitare della condivisione civica ed etica del contrasto alla violenza di genere che noi, come docenti di diritto penale, sviluppiamo nella didattica'.

Può essere fuorviante associare la difesa di un presunto innocente, la tutela dei suoi diritti processuali con l’esigenza punitiva di reati esecrabili, peraltro indipendentemente dalla questione di genere. In quella frase, animata certamente dalle migliori intenzioni, c’è l’eco della confusione concettuale fra difesa dei diritti dell’accusato e difesa del crimine, fra diritto penale e processo, senza dimenticare che la violenza andrebbe contrastata a prescindere dal genere dell’autore o della vittima, come insegna, ancora una volta, l’art. 3 Cost.

Il secondo piano di lettura, certamente meno interessante, riguarda il ruolo dei professori universitari impegnati nell’esercizio della professione forense. Ai tempi di Carrara, Carnelutti, De Marsico o Pisapia nessuno avrebbe contestato la “teoria utile” di Maestri impegnati tanto in cattedra quanto nel foro. Oggi, al contrario, questa figura di studioso anche pratico viene vista con sospetto, in ragione del bieco pregiudizio per cui il difensore sarebbe una figura malfamata, non solo complice processuale nel delitto, ma anche prezzolato sostenitore di tesi giuridiche addomesticate. Il compianto prof. Marcello Gallo, qualche anno fa, invitò gli accademici a sporcarsi le mani, esortandoli a darsi da fare in difesa del processo accusatorio. Temo che oggi buona parte degli studiosi delle scienze penalistiche non intenda più sporcarsi le mani.