A distanza di pochi giorni è morta per “eutanasia” l’attrice e regista italiana Sibilla Barbieri, in Svizzera, e, in Inghilterra, la piccola (8 mesi) Indi Gregory. Identico il risultato finale, ma diverso il percorso. Indi è l’ultima di una serie non breve di bambini (i casi più noti in Italia sono quelli di Cherlie Gard e Alfie Evans), che, su impulso dei medici del servizio sanitario pubblico e per decisione dei giudici (la cosiddetta Alta Corte) vengono soppressi nel loro “best interest”, nonostante l’opposizione dei genitori, che dovrebbero averne la rappresentanza legale.

Come già era accaduto per Alfie, il governo italiano ha tentato inutilmente di salvare Indi concedendole la cittadinanza italiana e offrendole ricovero in un nostro ospedale. Interventi a priori inadeguati, dopo il caso Alfie, a salvarle la vita, ma comunque non inutili, perché segnale di una implicita, ma ugualmente chiara, presa di distanza dal sistema inglese.

La più che cinquantenne Barbieri, è, a sua volta, l’ultima di una fila, che sta cominciando ad allungarsi, di cittadini italiani che si recano in Svizzera, perché in Italia li si è ritenuti non in possesso di tutti i requisiti per avvalersi del suicidio assistito in base alla sentenza della Corte costituzionale n. 242/2019, dichiarativa della incostituzionalità dell’art. 580 C.P. (“Istigazione o aiuto al suicidio”) nella parte in cui non esclude il caso di persone tenute in vita da trattamenti di sostegno vitale e affette da patologie irreversibili, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche reputate intollerabili, ma pienamente capaci di prendere decisioni libere e consapevoli. In particolare per la Barbieri mancava la “dipendenza da trattamento di sostegno vitale”.

Differenze non da poco dal momento che a scegliere il proprio “best interest” è stata la stessa Barbieri e non un giudice che pretende di riuscire ad individuare meglio dei genitori, non è chiaro in base a quali criteri, che non siano il risparmio di impegno professionale e spese per gli ospedali e il servizio sanitario, un migliore “interesse” che, se riferito non al denaro, ma a un essere umano, ha, già nel nome, natura non oggettiva, ma squisitamente soggettiva. Sistemi diversi e tuttavia entrambi inquadrabili nel sistema conosciuto come “The Overton Window”, che individua i meccanismi di persuasione e di manipolazione delle masse, che consentono di trasformare un’idea da completamente inaccettabile per la società a pacificamente accettata ed infine legalizzata. Fra questi meccanismi leggi e sentenze hanno un peso decisivo.

In Italia il primo passo può essere individuato nel decreto della Corte di Appello di Milano, che nel luglio 2008 autorizzò la soppressione, mediante interruzione dell’alimentazione artificiale, di Eluana Englaro. I successivi sono dati dalla legge n. 219/2017 (“Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”) e dalla citata sentenza della Corte costituzionale. Attualmente mirano allo stesso fine le reiterate autodenunce dei vari Marco Cappato per l’effetto psicologico indubbiamente esercitato sull’opinione pubblica dagli ormai garantiti provvedimenti di archiviazione grazie al ripetuto messaggio di insussistenza del reato che trasmettono.

I meccanismi della “finestra di Overton” sono ad uno stadio molto più avanzato in Inghilterra, dove nel mese di settembre 2023 una paziente di 19 anni designata come “ST”, in terapia intensiva con necessità di ventilazione e di un tubo di alimentazione, è stata “eutanizzata” nonostante avesse ripetutamente espresso la propria volontà di vivere e di essere curata e manifestato a tal fine l’intenzione di farsi ricoverare in un istituto canadese.

La capacità di intendere e volere di ST era stata garantita dalla testimonianza di due psichiatri, ma l’Alta Corte ha superato l’ostacolo con un tortuoso ragionamento, di non facile comprensione, ma che in sostanza fa coincidere la prova della incapacità di intendere e di volere con il rifiuto dell’eutanasia. Difatti - argomenta l’Alta Corte - la paziente, ostinandosi a voler vivere nonostante il responso della scienza medica sull’impossibilità di guarigione, ha dimostrato di non essere in grado di comprendere il senso delle informazioni ricevute e, quindi, di individuare il suo “best interest”. Di conseguenza, si è provveduto a garantirle l’assistenza di un curatore in grado di prendere al suo posto la giusta decisione. In questo caso il messaggio trasmesso dovrebbe riguardare soprattutto chi si ritiene al sicuro dalla cultura e dalla legislazione eutanasica, perché deciso a non prestare mai il proprio consenso alla “dolce morte”.

La sorte di ST dimostra che l’alleanza fra medici e giudici può rendere l’eutanasia obbligatoria, almeno per chi commetta l’errore (o non abbia modo di fare altrimenti) di rivolgersi alla Sanità pubblica (è verosimile che la privata non abbia fretta di sbarazzarsi di clienti che, quale che sia la prognosi finale, continuano a pagare).