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SARA MINELLI
Nel pantheon dell’antimafia ci sono tanti eroi, tanti uomini, delle istituzioni e della società civile, che si sono sacrificati, che sono stati sacrificati per essersi coraggiosamente contrapposti alla violenza ed agli interessi dei mafiosi.
Tra questi, ci sono però eroi ed eroi: da un lato ci sono eroi abbastanza ordinari (ma sempre eroi!), dall’altro quelli che hanno percorso la via più fulgida della santità/eroismo della lotta alla mafia divenendo indiscutibile, grandiosa, unica icona dell’antimafia.
Io ho sempre iscritto il gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa in quest’ultima categoria, quella degli eroi assoluti, dei più grandi, dei più coraggiosi, dei servitori dello Stato più validi, fedeli e preziosi.
Eroe nella lotta alla mafia quanto in quella al terrorismo anche se, diciamolo con franchezza, secondo una certa cultura, secondo certe posizioni politiche, in virtù di una certa retorica dell’antimafia, proprio quest’ultimo aspetto rappresentava e rappresenta un limite. Come può considerarsi eroe al pari di Falcone o Borsellino, o sopratutto di Pio Latorre e prima di ogni altro di Peppino Impastato, un Generale dei Carabinieri che si è distinto nell’arrestare i protagonisti della rivoluzione comunista, che probabilmente ha ordinato sanguinosi blitz in cui qualche compagno brigatista è rimasto sul campo?
Insomma a Dalla Chiesa mancava qualcosa, c’era una noxa nella sua carriera di uomo di Stato che andava compensata con qualche altra straordinaria virtù che, forse meglio di ogni altra, può garantire l’ascesa ai più elevati altari della più esclusiva iconografia dell’antimafia. Come fare?
Quale può essere l’universale, efficacissimo passe-partout per rendere massimamente fulgido lo straordinario eroismo del Generale Alberto Dalla Chiesa?
Presto detto: non basta infatti esser morti sul campo ma, anche dopo tanti meriti e tante vere medaglie, in aggiunta necessita esser stati freddati col contributo, anche piccolo, di Giulio Andreotti, del cinico feroce belzebù della prima Repubblica, e sopratutto del malefico sistema di potere democristiano che su di lui si reggeva. Se proprio non è possibile di più, deve quanto meno avere agito una oscura mano omicida appartenuta a qualcuno che abbia inteso fare un presunto, improbabile favore al “divo” Giulio, magari a sua insaputa!
È un cliché, anzi un inattaccabile sillogismo aristotelico, o pseudo tale: gli esponenti andreottiani in Sicilia erano tutti mafiosi (come, in verità, lo erano secondo questa vulgata un po’ tutti i democristiani), chi lottava contro la mafia osteggiava tali soggetti, quindi i mafiosi che hanno ucciso quei tanti eroi hanno senz’altro fatto loro un favore e primo fra tutti l’hanno fatto al loro capo, l’immonda medusa dalle sette teste tante quante sono state le sue Presidenze del Consiglio dei Ministri.
L’esser stati vittima, più o meno indiretta, di Giulio Andretti è, tra i meriti della lotta alla mafia, quello che senz’altro pesa più di tutti, che può sicuramente garantire un posto unico, privilegiato tra gli altari più inarrivabili del pantheon degli eroi della guerra alla mafia. E così, seppure a distanza di 42 anni, la figlia Rita - si dice che le colpe dei padri non devono ricadere sui figli ma si dimentica che neanche i meriti dei padri si trasmettono necessariamente ai figli - si ricorda, o fa ambiguamente capire di ricordare o di poter ricordare, una frase, una minaccia pronunziata dal terribile Belzebù all’indirizzo del padre con l’intento di proteggere gli esponenti siciliani, ovviamente mafiosi e democristiani, della sua corrente.
Poco importa che nei diari di Dalla Chiesa non c’è cenno di quella minaccia e che nemmeno il di lei fratello Nando, che aveva già parlato di un colloquio tra Dalla Chiesa ed Andreotti, avrebbe riferito di una minaccia ma solo di una grande sorpresa, forse di uno sbigottimento (Andreotti sarebbe sbiancato in volto), dinanzi ai gravi sospetti del generale sulla figura e sul ruolo degli uomini della sua corrente siciliana.
E a nulla vale osservare la stranezza di questo insinuante ammiccamento con cui si vorrebbe dire e non dire, confermare ma senza pronunziare parole chiare, arrivato a distanza di ben 42 anni dopo decine di volte in cui giudici e pm avranno senz’altro interrogato anche Rita Dalla Chiesa per acquisire circostanze a sua conoscenza ed utili alle indagini sull’omicidio del padre. Quanto è strano questo così tardivo ammiccamento, che tanto somiglia agli stilemi di quella subcultura mafiosa che il Generale ha coraggiosamente combattuto!
Andreotti è morto e sepolto da decenni, non può più smentire nessuno, è un accusato che non può difendersi. È fuor di logica avanzare l’idea che questo così lungo silenzio su fatti di cui costei sarebbe stata a conoscenza potrebbe aver rappresentato, se vero quanto insinua, una condotta omertosa e favoreggiatrice verso possibili autori e mandanti?
È sbagliato pensare di trovarsi di fronte all’ennesimo esempio di sensazionalismo giornalistico irrispettoso di quei principi di garantismo e di rispetto della sfera dei diritti della persona che per tutti devono rappresentare un valore incommensurabile?
Tali principi non devono forse valere anche per quelli che non sono più tra noi quando la loro storia umana e politica risulti ancora coinvolta nell’attuale confronto pubblico oltre che in tante vicende giudiziarie? Non rappresenta, tutto questo, una delle fonti di quella vena giustizialista e forcaiola che tanto detrimento ha arrecato al nostro sistema civile e giuridico?