Nel sintagma programmatico originale del governo si diceva: “garantisti nel processo e giustizialisti nell’esecuzione”. Un tentativo di mettere insieme due realtà che non sono in alcun modo conciliabili, né sotto il profilo giuridico né logico, perché l’assunto garantista trova il proprio fondamento nel riconoscimento della dignità dell’uomo che è un valore che non può che prescindere dall’accertamento delle sue eventuali responsabilità penali. Garantismo e giustizialismo non possono essere “due rami dello stesso albero”. Si deve necessariamente scegliere da che parte stare.

D’altronde questa tensione irrisolta è piuttosto evidente all’interno della maggioranza di governo. Anche se per ovvi motivi essa tende ad una apparente ricomposizione. Ma la questione oltre che politica è culturale e certe posizioni sono inevitabilmente destinate a cadere. Stando all’assunto giustizialista “in purezza” si sarebbe dovuto innanzitutto riformare l’art. 27 Cost. riconducendolo al solo paradigma retributivo, ed abrogare poi anche l’istituto della revisione, evidentemente contrario al “marcire in galera” del reo.

Ora, invece, nessuno nega pubblicamente la finalità rieducativa della pena e certe velleità “ideologiche” sono state accantonate. La verità è che le garanzie, una volta date come coessenziali al sistema, permangono ostinatamente anche oltre i confini del giudicato ove sono presenti ampi spazi di tutela in favore del condannato. Nessuna forza politica che voglia proporsi come responsabile forza di governo può rinnegare questa verità. L’avere accertato le responsabilità penali di un imputato non annulla certo la dignità della sua persona e non cancella i suoi diritti.

Al di là dagli slogan giustizialisti, all’interno di alcuni settori della maggioranza di governo queste verità autoevidenti hanno trovato inevitabilmente spazio, ma le parole d’ordine della “certezza della pena”, declinata in chiave securitaria, e le posture inflessibili della “resa dello Stato” hanno fino ad ora impedito ogni minimo provvedimento deflattivo. Anche la liberazione anticipata speciale che, nelle drammatiche condizioni date, non ha nulla di premiale - prospettandosi solo come un minimo risarcimento per l’afflittività di una pena resa doppia dai modi in cui viene espiata – ha subito un radicale rifiuto. Ma si tratta di una dimostrazione di debolezza. Insistere su questa strada non ha probabilmente alcuna convenienza per chi la percorre.

Vi è una ostinazione tutta propagandistica in base alla quale la pena deve equivalere al carcere, senza avvedersi che un’ottica simile ci fa arretrare di almeno cento anni indietro in quanto oggi nessuno immagina più delle pene detentive che non siano elastiche e come tali suscettibili di modulazioni differenti, dalla probation alla liberazione anticipata riconosciuta in base alla buona condotta.

Quell’ennesimo suicidio dell’agente di custodia consumato sulle mura di cinta del carcere palermitano dell’Ucciardone, le rivolte disperate, che stanno esplodendo senza scopo e senza senso nelle carceri italiane, sono tutti eventi che danno un senso ancor più drammatico, se possibile, ai sessantatre suicidi di detenuti. Eventi che hanno tutti probabilmente motivazioni assai diverse che andrebbero studiate e analizzate, ma che certamente illuminano la realtà del carcere come fosse un luogo surreale, un pozzo oscuro e profondo di incomprensioni, di luoghi comuni e di coazioni a ripetere.

La verità è che il carcere è un problema, mentre ci si ostina a considerarlo come una soluzione. Occorrerebbe istituire un nuovo Ministero. Un ministero per la Riforma del carcere che funzionasse come permanente luogo di studio di quel problema. Si continua invece a pensare al carcere come una risorsa in sé sulla quale investire. Un bene da incrementare.

Si modificano le misure alternative già esistenti, si provvede a catalogare strutture per tossicodipendenti non esistenti. Non si rimuovono i motivi delle rivolte, ma si organizzano nuovi reparti speciali per sedare le rivolte, a riprova della opportunità di introdurre il reato di rivolta.

Infine l’idea resta quella di costruire nuove carceri. Carceri come quelle già esistenti. Carceri nuove come quelle di più recente costruzione, nelle quali comunque ci si suicida. Carceri come quelle vecchie ma che saranno chiamate comunque nuove. Carceri intese ancora una volta come contenitori. Commissari per costruire carceri come contenitori di uomini. Non si sa bene perché costruirle, né come saranno costruite, mentre dovrebbe cambiare il perché costruirne e conseguentemente dovrebbe cambiare il come.

Spesso gli slogan e le parole d’ordine sono efficaci veicoli di consenso, ma divengono ostacoli sulla via della ragionevolezza. Si trasformano in gabbie che impediscono di agire adeguandosi alla necessità, alle condizioni mutate, all’imprevedibile svilupparsi degli eventi. Poiché si tratta di slogan se ne dovrebbe riconoscere la capacità evolutiva. Ma la strada da percorrere mi pare ancora lunga e per certi versi misteriosa, perché non sappiamo quali nuove proposte possano ancora prendere corpo.

Gli slogan sono pericolosi perché sono gabbie, ma sono al tempo stesso anche strutture fragili destinate ad imprevedibili “dissolvenze incrociate”: “certezza della pena” può anche significare “certezza che le pene abbiano raggiunto il loro scopo rieducativo” comunque esse siano immaginate.