L’uscita di scena di Matteo Messina Denaro è stata provocata «solo dalla malattia», si rammarica La Repubblica, non si sa in base a quale verosimile alternativa: la fucilazione? L’iniezione letale? La pasticca di cianuro come i gerarchi del Terzo Reich? O magari una spettacolare sparatoria con la polizia come accadde al colombiano Pablo Escobar.

In genere non c’è nessuna epica nella scomparsa dei grandi capi di Cosa Nostra: Riina, Provenzano, e ora Messina Denaro sono tutti morti per malattia, mestamente, tutti in regime di 41 bis, irrimediabilmente sconfitti dallo Stato. Gli ultimi due poi, costretti, di covo in covo, a una vita da fuggiaschi, lontani anni luce dalle stagioni sanguinose delle stragi e delle faide in cui tenevano in pugno il Paese e il potere gli colava letteralmente dalle mani.

Ma il diavolo, si sa, si annida nei dettagli, e per l’antimafia delle chiacchiere raccontare la perversa grandezza dei padrini è soprattutto una questione di stile, un po’ come per i villain dei film di Hollywood. Peccato che si tratta di un romanzo vintage, che ci racconta le gesta di una Mafia vecchia di trent’anni i cui protagonisti sono stati tutti arrestati e che oggi non hanno più alcuna influenza concreta sull’organizzazione.

Adesso che l’ultimo grande boss di Cosa Nostra non è più in vita chi prenderà dunque il suo posto nell’immaginario giornalistico, quale sarà l’erede? Il dramma è che, anche esagerando, quella figura è impossibile da tratteggiare, forse perché non esiste. Come spiega lo storico Salvatore Lupo in un’intervista al Foglio, «non si vede perché la Mafia debba avere necessariamente un superboss».

Un vero problema, anche perché Cosa Nostra da decenni tiene un profilo bassissimo praticamente senza commettere fatti di sangue o reati penalmente rilevanti, costringendo così i nostri romanzieri a virtuose iperboli sul suo subdolo mimetismo, sulle sue inquietanti strategie attendiste, sulle sue ramificazioni globali e sulla sua abilità nel nascondersi nelle pieghe del sistema, una Mafia “dormiente” e per questo descritta come ancora più insidiosa e difficile da individuare. La paradossale conclusione è che meno Cosa Nostra commette reati più diventerebbe pericolosa. Quasi che rimpiangano le migliaia di morti ammazzati degli anni Ottanta e Novanta quando Palermo era una città in stato d’assedio come Beirut.

Lo chiamano giornalismo di inchiesta ma in realtà è un filone letterario, un genere di intrattenimento popolare che ignora scientemente i fatti per inseguire vecchi fantasmi.