Berlusconi non ha proprio confini del tempo né dello spazio, né della storia e della vita e della morte. Sarà stato quel fazzoletto a ripulire la sedia dove il direttore del Fatto era stato seduto, o sarà forse una di quelle invidiuzze nei confronti dell’uomo di successo che ti provocano un nocciolino che non va né su né giù. Fatto sta che ogni occasione è buona. Si tratti di un gelataio giocoliere che sta portandosi a spasso, dalla Sicilia alla Toscana, pubblici ministeri e giornalisti. Oppure l’occasione sia data, come è accaduto ieri, dalla condanna dell’avvocato Giancarlo Pittelli per concorso esterno in associazione mafiosa. Non potendosi citare per nome e cognome colui che non c’è più, ecco che diventa buona il pretesto per chiamare in causa, con il consueto spargimento di mangime avariato, il partito di cui colui che non c’è più fu il fondatore e il leader indiscusso.

Che cosa c’entra Forza Italia con la sentenza del processo “Rinascita Scott”? Assolutamente nulla. Anche sul piano dell’opposizione politica, come bersaglio è proprio sbagliato. Infatti, nonostante le buone previsioni dei sondaggi che danno al partito una costante crescita, persino nei lunedi sera di uno sempre ostile come Enrico Mentana, non si può proprio dire che Forza Italia sia oggi il centro del dibattito politico e neppure dello scontro con la sinistra. Certo, i suoi deputati e senatori si danno molto da fare per le garanzie e lo Stato di diritto. Ma sul piano giudiziario, nell’attesa della cassazione che dovrà decidere sulle eventuali manette al famoso gelataio, i fatti dicono una cosa sola, le tante assoluzioni nei confronti di Silvio Berlusconi, oltre al dato inoppugnabile che lui non c’è più. E allora che cosa significa quella fotografia di Giancarlo Pittelli con Marcello Dell’Utri e Nicola Cosentino, e quel titolo “En plein di Forza Italia”? Sul piano giudiziario un bel passo falso. Perché occorre ricordare che le persone oggetto del titolo scandalistico, un mezzuccio comunicativo proprio da giornaletto che deve farsi spazio nella concorrenza, sono state le uniche, oltre al senatore Tonino D’Alì, tra i tanti personaggi politici degli ultimi trent’anni di storia, a essere stati condannati per “concorso esterno in associazione mafiosa”, il reato che non c’è. Vogliamo ricordare la storia, da Giulio Andreotti a Corrado Carnevale, fino a Calogero Mannino e Antonio Gava, e Francesco Musotto e Bruno Contrada, fino a Silvio Berlusconi, archiviato cinque volte? E se vogliamo spostare lo sguardo sulla giornata di ieri, come tralasciare il fatto che in un processo con un terzo di assolti, il “buco” che segna il fallimento della Dda di Catanzaro è stato determinato dal crollo del “concorso esterno” nei confronti di una serie di amministratori locali?

E allora, i casi sono due. O Marco Travaglio continua ad avere notti insonni in cui immagina il cavaliere che va a tirargli i piedi, e allora se la prende con Forza Italia come face il lupo con l’agnello. Oppure il problema è proprio nel fallimento politico del reato che non c’è e di una certa concezione dell’antimafia militante, ben lontana dall’esempio di Giovanni Falcone cui ambiva Nicola Gratteri. Quel 60% di assolti nei due processi “Stige” e il 39% di innocenti del “Rinascita Scott” pesano come montagne. E allora bastoniamo un po’ Forza Italia. Tanto non c’è più Silvio Berlusconi con il suo fazzoletto a spolverare quella sedia.