I danni della tesi giudiziaria, completamente sconfessata dalla sentenza definitiva in Cassazione, sulla ( non) “trattativa Stato- mafia”, hanno coinvolto anche l'ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il risultato è stato l'emergere di spregevoli commenti sui social da parte di persone che lo accusano di avere a che fare con la trattativa, esultando per la sua morte. La colpa maggiore proviene dai mezzi di informazione, soprattutto da taluni giornali, che hanno intossicato il dibattito.

Tutto parte dalle famose intercettazioni carpite dalla procura di Palermo di allora, tra Napolitano e l'ex ministro Nicola Mancino. Quest'ultimo è stato indagato, processato e infine definitivamente assolto. Che le parole carpite a Napolitano non abbiano alcun rapporto col processo trattativa Stato mafia, in realtà, è cosa pacifica. Nessuna rilevanza penale. Nessun indicibile segreto compariva nei colloqui telefonici. E ciò è stato confermato dai pm di allora, in particolare da Antonio Ingroia. Ma cosa era accaduto? Nell'ambito dell'allora procedimento penale sulla trattativa Stato- mafia pendente a Palermo, erano state captate conversazioni dell'allora presidente Napolitano nel corso di intercettazioni telefoniche effettuate su utenza di Mancino.

Lo stesso procuratore di Palermo, rispondendo alla richiesta di notizie formulata il 27 giugno 2012 dall'Avvocato generale dello Stato, aveva riferito, il successivo 6 luglio, che, «questa Procura, avendo già valutato come irrilevante ai fini del procedimento qualsivoglia eventuale comunicazione telefonica in atti diretta al Capo dello Stato, non ne prevede alcuna utilizzazione investigativa o processuale, ma esclusivamente la distruzione da effettuare con l'osservanza delle formalità di legge». Non solo. Con una lettera al quotidiano la Repubblica pubblicata l' 11 luglio 2012, il pm Francesco Messineo ha ulteriormente affermato tra l'altro, sempre con riferimento alle intercettazioni, che «in tali casi, alla successiva distruzione della conversazione legittimamente ascoltata e registrata si procede esclusivamente previa valutazione della irrilevanza della conversazione stessa ai fini del procedimento e con la autorizzazione del giudice per le indagini preliminari, sentite le parti».

Ma incredibilmente, arriva il dietrofront. La stessa Procura di Palermo decise invece di mantenere le intercettazioni agli atti del procedimento perché esse fossero dapprima sottoposte ai difensori delle parti, ai fini del loro ascolto, e successivamente, nel contraddittorio tra le parti stesse, sottoposte all'esame del giudice ai fini della loro acquisizione. Per questo motivo l'ex presidente Napolitano sollevò il conflitto di attribuzione e la Consulta gli diede ragione. Ma nell'immaginario collettivo, passa l'idea che Napolitano abbia voluto far distruggere le intercettazioni per non far sapere indicibili verità. Come detto, la verità dei fatti è che in questi colloqui carpiti dalla Procura non era emerso nulla di rilevante sul piano penale. Ma passa l'idea che se un cittadino - capo dello Stato o no - si oppone a rendere pubbliche le sue telefonate, ha probabilmente qualcosa da nascondere. Una cultura del diritto al livello del khomeinismo, giusto per parafrasare Giovanni Falcone quando si riferiva alla “cultura” del sospetto. Ma aver tirato in ballo Napolitano in maniera del tutto inconferente è stata la cortina fumogena dietro la quale nascondere l'implosione dell'inconsistente teorema giudiziario trattativa Stato- mafia. A distanza di anni, così è stato.