Non voglio togliere o contestare nulla dei 15 giorni di sospensione dall’aula di Montecitorio comminati giustamente al deputato leghista Igor Iezzi per avere sferrato un pugno sulla fronte del collega pentastellato Leonardo Donno e avere tentato -per suo stesso racconto- di colpirlo anche al torace in una poco memorabile seduta della Camera sulle cosiddette autonomie differenziate.

Né voglio aggiungere qualcosa ai tre giorni di prognosi dati dai medici a Donno in ospedale, anche se tre giorni non si negano a nessuno in un pronto soccorso, come una volta si diceva dei sigari e poi, o insieme, di un titolo onorifico.

Voglio solo ricordare ai più giovani, o meno anziani, come preferite, che il Parlamento ha trascorso altri giorni e momenti tumultuosi nei 78 anni della nostra Repubblica, ben prima dell’arrivo di Giorgia Meloni alla guida di un governo, e per giunta -agli occhi, al cuore e alle viscere di certe opposizioni- non di centrodestra ma di destra-centro.

Per non starvela a raccontare troppo lunga evoco la seduta del Senato del 1953 in cui il presidente dell’assemblea Meuccio Ruini fu colpito alla testa da un banco divelto dal seggio da un senatore contrario alla legge su cui si stava discutendo e votando. Una legge elettorale chiamata “truffa” dalla sinistra perché istituiva un premio di maggioranza. Che, reintrodotto molti anni dopo da un’altra legge, nella ormai cosiddetta seconda Repubblica, avrebbe permesso di conquistare la guida del governo prima a Silvio Berlusconi e poi, sul fronte opposto di sinistra, a Romano Prodi.

Ruini, di origini socialiste, che era stato uno dei protagonisti dell’assemblea Costituente, dovette ricorrere all’infermeria del Senato riprendendone subito la guida per onorare l’impegno assunto nel succedere a Giuseppe Paratore, che si era dimesso perché sopraffatto dall’opposizione ostruzionistica e animata alla riforma elettorale voluta da Alcide De Gasperi. L’impegno di Ruini era quello di svolgere il suo ruolo “con la stessa fermezza” -aveva annunciato lui stesso nel discorso di insediamento- con la quale” era andato “con i capelli già grigi sul Carso”, nella prima guerra mondiale.

In quella stessa seduta al Senato il giovane sottosegretario di De Gasperi destinato dopo molti anni a succedergli, Giulio Andreotti, per proteggersi dalle tavolette e altri oggetti che volavano in aula s’infilò sotto i banchi del governo. E ne uscì -mi raccontò una volta con la sua immancabile ironia- scoprendo accentuata la sua gobba incipiente.

Quella legge elettorale “truffa” -ripeto- per definizione dei suoi oppositori era stata tanto diabolicamente predisposta o voluta da De Gasperi che non scattò per pochi voti. Tanto pochi che il suo ministro dell’Interno Mario Scelba voleva ordinare una verifica dei risultati in un campione di seggi. Ma a fermarlo fu proprio De Gasperi. Altri tempi davvero, altri uomini, altri leader. Lo penso e lo scrivo con una certa mestizia pensando non solo a Iezzi, Donno e agli altri nove deputati -undici in tutto, come una squadra di calcio- protagonisti o attori dei “disordini” appena verbalizzati a Montecitorio, ma anche alla giovane segretaria del Pd Elly Schlein.

Quest’ultima nell’annunciare e motivare una manifestazione di protesta per martedì a Roma, in Piazza Santi Apostoli, ha parossisticamente e praticamente paragonato il deputato pentastellato Donno a Giacomo Matteotti nel centenario del suo ultimo discorso di denuncia delle irregolarità e violenze del fascismo e della condanna a morte con esso procuratasi.

Vi deve pur essere -penso- una misura in tutto. Anche nell’uso della storia e nell’opposizione: ieri, anzi l’altro ieri, contro la legge per niente “truffa”, destinata ad essere replicata dalla stessa sinistra dopo decenni, e oggi contro – per tornare al Senato dove Ruini fu ferito al banco di presidenza- contro la riforma costituzionale che contempla l’elezione diretta del presidente del Consiglio: Tutto ciò in un paese -mi permetto di ricordare pur senza titoli accademici o politici- dove si eleggono da tempo direttamente i sindaci dei Comuni e i presidenti delle Regioni. E il presidente del Consiglio inteso o auspicato come “sindaco d’Italia” è stato già oggetto di dibattiti politici e mediatici senza lasciare per strada, o su un pavimento parlamentare, feriti e tanto meno morti. Un po’ di misura, ripeto.