Le esequie sono state una aggiuntiva prima volta del primo presidente della Repubblica ex comunista, primo capo di Stato ad accettare la rielezione, e primo ad essere insignito per due volte del laticlavio da senatore a vita, di nomina presidenziale e poi di diritto: sono stati i primi funerali di Stato celebrati non a Santa Maria degli Angeli ma in Parlamento, in omaggio a quella laicità cui ha tributato rispetto e riconoscimento anche Papa Bergoglio, non benedicendo la salma e non facendosi nemmeno il segno della croce alla camera ardente.

Ma le prime volte nella vita di Giorgio Napolitano sono state certo molte di più, anche al di fuori dell’ufficialità. A me è capitato di dover seguire da giornalista il suo doppio mandato presidenziale, e questo vuole essere un ricordo personale: lunghi anni trascorsi ad osservare da vicino, quotidianamente e dovunque andasse, uno degli uomini politici più acuti e capaci che l’Italia abbia avuto. Un vero dinosauro. Ero quirinalista del quotidiano La Stampa, e dunque con tutti i crismi dell’ufficialità. Arrigo Levi, che dall’era Ciampi rimase per qualche tempo come consigliere per le relazioni esterne al Quirinale, mi aveva spedito dai corazzieri, i quali mi fotografarono, e dopo un po’ di giorni uscì un tesserino che mi dava un accesso ( quasi) libero a Palazzo. Fu una benedizione, perché quando tentavo di avvicinare il Presidente c’erano solo gli addetti stampa - e non la sicurezza - a sbarrarmi il passo. E quando tentavo di avvicinarmi Napolitano, in genere, li bloccava: «Ma no, la lasci passare… Non vede, oltretutto è una signora…».

Quel lasciapassare funzionò anche negli ultimi giorni del suo primo mandato, quando erano quasi ultimati gli scatoloni che dal Quirinale sarebbero dovuti traslocare a Palazzo Giustiniani. Mi ero imbattuta in una vecchia intervista nella quale Napolitano raccontava con una certa accoratezza il dispiacere di aver perso la copia della rivista Prospettive del mondo che Curzio Malaparte aveva dedicato alla rivoluzione russa. E subito mi era balenata in mente quella copertina rosso fuoco col titolo «Il Sangue Operaio», che giaceva da anni in fondo a un cassetto di casa mia. Oltretutto, di Prospettive nel mondo io possiedo l’intera collezione in ristampa anastatica: pensai che quell’originale dovesse averlo il presidente che tanto aveva fatto per il Paese, su tutto salvando l’Italia dal berlusconismo che aveva preso la via del fallimento delle casse dello Stato, e recandosi a Berlino ben due volte per convincere Angela Merkel che Mario Draghi - sì, un italiano - era l’uomo giusto per la Bce.

Infilai quindi la rivista in una cartellina e, a margine di un evento e sotto il naso di un incredulo Pasquale Cascella, che del presidente era il portavoce, la misi direttamente nelle mani di Napolitano. Il quale la aprì subito, e rimase a sua volta interdetto. Mi guardò, non disse nulla, e proseguì. «Mai avrei immaginato…», mi disse poi, convocandomi quello stesso pomeriggio a Palazzo nel suo studio privato. Dove per un’ora e mezza mi raccontò del suo rapporto con Malaparte, che aveva conosciuto a 19 anni da sfollato in quel rest camp americano che era la Capri del 1944, col quale discuteva di arte, letteratura, politica e in particolare della politica di Togliatti, e nei più minuti dettagli di tutte le riunioni che sull’Arcitaliano teneva la sua stretta cerchia per commentare ogni uscita di Malaparte. Che era in avvicinamento al Pci, creando scandalo: solo il gruppo di Togliatti e i giovani napolitanologhi difendevano un intellettuale del quale altri ricordavano solo i trascorsi fascisti.

Quello di Napolitano fu un racconto così dettagliato, fin nei numeri civici delle strade che facevano da scenario, da risultare inafferrabile per la memoria di una persona comune: oggi, di quel mezzo pomeriggio al Quirinale ho solo il ricordo, poiché presentarmi con un registratore o prendere appunti mi era sembrato indiscreto, come fosse un poco elegante mezzuccio per ottenere un’intervista ( e Napolitano era un uomo formale e sempre elegante, in tutti i sensi).

Re Giorgio - come lo chiamavano gli altri quirinalisti - era un gentiluomo, un vero signore per dirla come si sarebbe detto una volta. Dotato di un umorismo britannico che poteva diventare tagliente, capace di estrema cortesia come di memorabili sfuriate. E puntigliosissimo. Anche da presidente, se non si era scritto tutto giusto o - peggio - se non condivideva, per protestare alzava personalmente il telefono. A me capitò una volta di non potergli rispondere perché ero sotto i ferri del dentista. La cosa naturalmente peggiorò il tono della telefonata, perché pensò che fosse quel che non poteva essere: una scusa. Un’altra volta mi capitò un inedito assoluto nella storia delle istituzioni occidentali di quel tempo ( Trump era di là da venire): il mio direttore ricevette una furibonda lettera scritta di pugno dal presidente che cominciava così: «Sul suo giornale Antonella Rampino ha scritto…». Era accaduto che il presidente se ne era andato alla Treccani a convegno per commemorare Luciano Cafagna, e che nel farlo tra molte altre cose aveva tessuto l’elogio della moderazione in politica, pronunciando la parola «centrismo», e criticando il bipolarismo «muscolare».

Si era nell’aprile del 2012, Casini in quei giorni stava lanciando una sua “formazione centrista”, e insomma solo io tra i grandi quotidiani avevo rilevato quella strana coincidenza. Non perché fossi un genio: perché gli altri, a seguire Napolitano in un impegno insolitamente non evidenziato dall’ufficio stampa, semplicemente non c’erano. Un’altra volta, accadde che fosse il presidente a varcare i cordoni e a rivolgersi a me, alla fine di una conferenza stampa non mi ricordo più se a Varsavia o a Zagabria: «Ma lei, mentre io parlavo, doveva proprio giocare col telefonino?». Per fortuna avevo il BlackBerry ancora in mano, e potetti mostrargli che me ne ero servita per scrivere proprio quello che lui stava dicendo.

La grande complessa personalità del presidente Giorgio Napolitano, che Malaparte definì «un uomo capace di mantenere la calma anche davanti all’Apocalisse» ( frase poi ripresa più volte da Henry Kissinger) ci teneva sul filo del rasoio tutte le sere fino all’ora di cena. Erano quelle ore ( cruciali per i tempi dell’informazione) tra le 7 e le 9 o anche oltre in cui dal Palazzo usciva una nota ufficiale, spesso di pura penna presidenziale, capace di rovesciare le sorti dell’intera giornata, tra smentite, puntualizzazioni e vere e proprie prese di posizione. Stavamo ( relativamente) tranquilli solo tra le 3 e le 4 del pomeriggio: sapevamo che a quell’ora il presidente - ultraottantenne - si infilava un pigiamino, e riposava.

Fattori di trasparenza, come anche l’abitudine di comunicare ogni personalità salita al Quirinale in giornata. A me, che della Stampa ero contemporaneamente anche corrispondente diplomatico, capitò di essere convocata con alcuni altri colleghi dal consigliere diplomatico Stefano Stefanini e dal suo braccio destro Aldo Amati che, nei giorni delle dimissioni di Berlusconi, ci diedero conto ( su indicazione presidenziale, come ovvio) di tutti i contatti internazionali che Napolitano aveva in corso, a cominciare dalle telefonate che gli avevano fatto Angela Merkel e Barack Obama: perché un default dell’Italia avrebbe avuto ripercussioni sull’area dell’euro, ma anche su quella del dollaro. E straordinario fu vedere poi, a crisi risolta, l’accoglienza che fu riservata all’Italia dalla Casa Bianca: Obama dedicò un giorno del calendario americano, il 17 febbraio, all’Italia.

Il presidente americano, per quanto ne so, si rivolse con una certa durezza a Giorgio Napolitano solo una volta: fu anni prima quando, ricevendolo al Quirinale, Napolitano cercò di perorare la causa di Franco Frattini segretario generale della Nato. La risposta fu molto diretta: «No». E incredibile a vedersi poi lo spettacolo all’Onu quando, dopo il discorso di Napolitano all’Assemblea Generale, 180 dei 184 ambasciatori presenti si misero in fila indiana per stringergli la mano.

Altri tempi, si dirà, e soprattutto altre tempre. Ma l’Italia ha potuto avere un presidente di quel livello per una carambola della storia, per quell’autentico terno al lotto che sono le nostre elezioni presidenziali. Al Quirinale, nel 2006, doveva andare Massimo D’Alema che, per via delle cordiali intese tessute ai tempi della Bicamerale, avrebbe avuto i voti di Berlusconi. Ma Fini - e Casini- si misero di traverso, e spuntò Napolitano come “ripiego”.

Alla fine, alla prima votazione dopo l’accordo raggiunto sul suo nome, Napolitano passò al primo colpo, a larga maggioranza e con le schede bianche di Forza Italia. A spianare la via del Colle nel 2006 ha certamente contribuito, sia pure sottotraccia, l’autobiografia uscita nel 2005 nella quale faceva infine autocritica ’ uomo che nel 1956 aveva dato prova di ortodossia sovietica bacchettando duramente Antonio Giolitti che aveva invece condannato la sovietica invasione dell’Ungheria. Non a caso, il primo atto di Giorgio Napolitano presidente della Repubblica nel 2006 fu riconciliarsi con Antonio Giolitti. Cosa che avvenne, come ha ricordato su queste pagine Claudio Petruccioli. Ma, dopo la telefonata dal Quirinale, Antonio Giolitti fece aspettare Napolitano un paio di giorni. Per via di una infreddatura, naturalmente.

Nei lunghi anni prima del Colle, e prima che Carlo Azeglio Ciampi lo nominasse senatore a vita, Napolitano era finito come nel dimenticatoio. Per quanto rilevante, ininfluente nello sce- nario della politica. E questo contiene un insegnamento per l’oggi. Forse, nel Paese le grandi personalità ci sono, magari finite nel cono d’ombra per via di quel nido di ragno che è l’invidia un tratto non secondario del carattere nazionale. Basterebbe solo cercarle. Forse.