Facile dire che i colletti bianchi, quando cadono nel baratro, non meritano la nostra attenzione o compassione. Enzo Tortora era un liberale, un televisivo di estremo successo, colletto candido. Travolto dal carcere e dall’ingiustizia, fino alla condanna della morte passando per l’assoluzione della Corte, il colletto bianco non si vedeva più. Che cosa restasse dopo la retata, dopo l’umiliazione, dopo la decisione favorevole alla “custodia preventiva in carcere” (lessico burocratico), queste lettere lo dicono dallo sprofondo di un tempo remoto e di una memoria presente. Restavano la solidarietà, l’umanità cocente e disperata, il senso di essere uno come altri, il bisogno d’aria della bestia in gabbia, l’autocontrollo, lo struggimento d’amore, la malattia dell’innocenza, lo sbalordimento del gentiluomo, il passaggio senza fine di un tempo che si faceva platonicamente immagine mobile dell’eternità, la rivolta contro un paese rivelatosi oppressore, un sistema capace di tutto, e sopra tutto la logica del partito preso, la spirale dell’interesse ad accusare, a trovare indizi nella testimonianza della feccia più feccia per difendere la reputazione della toga più toga, la sensazione di essere braccato da una follia cinica rivestita dei panni augusti della giustizia e della forza dello Stato oltre che dalla carognaggine dei giornali e delle tv, eccezioni rare e solo esemplari, inefficaci per lo più e comunque lontane, in dissolvenza per tutto il primo periodo del carcere.

Francesca Scopelliti è la primizia d’amore che insieme alle figlie, alla sorella di Tortora, collabora come può, separata per legge dal convivente detenuto, con i telegrammi, l’ansia, la compostezza greca, e “greca” lui spesso la chiama, compostezza greco- classica, di una calabrese bella e sorprendente, che gli terrà la mano fino all’ultimo respiro e solo ora licenzia questo tesoro di lettere, di dolcezze d’uomo vero, di seduzioni e apprensioni (“va’ in vacanza”), di ricordo, di desiderio, di dialogo tra adulti innamorati costretti a vivere e a imparare nella tempesta. Colletto bianco, mi fanno ridere. Uomo di successo, viene da piangere.

Tortora fu colosso abbattuto dell’invidia pulsante, perché “gli uomini non chiedono che di adagiare la propria felicità sull’altrui sofferenza” ( Salvatore Satta), nella società chiusa dello spettacolo rischiò il più rigido isolamento sociale, il suo passato disinvolto, un po’ snob, faceva da guarnizione perché non passasse l’aria della comprensione, della interpretazione di quella storia vera che solo amici, solo liberali, solo radicali riuscirono a respirare e a fargli respirare.

Tortora è morto al culmine della tragedia, segnando della tragedia l’aspetto sinistro dell’inevitabilità. Eppure era tutto evitabile. Il carcere era afflittivo, inutile, affermazione di un potere senza significato sul piano del diritto. Le lettere lo mostrano a dito, il pregiudizio che devasta, che rinvia, che non tiene conto, che va in vacanza d’estate, che non si cura del rispetto del diritto, che conta sulla ignobile trafila dell’accusato in catene, in schiavettoni.

La procedura penale avrebbe consentito un processo senza gogna, e della procedura morbosa fecero parte invece le parole assertive, cattive, disumane che furono pronunciate in toga contro l’inerme tra gli inermi, contro il “cinico trafficante di morte” che si preparava a scambiare la sua vita, quella delle figlie di Francesca dei suoi, con la desueta ma in lui viva funzione dell’onore personale. Il processo fu processo politico, avanscena della carica contro la Repubblica appena di là da venire, esperimento selvaggio di una casta codina intenzionata a regnare sullo spirito degli italiani, con brindisi di cronisti appiccicato, anticipo di una rivoluzione sostitutiva della divisione dei poteri, dell’equilibrato controllo reciproco.

Da queste lettere a Francesca, Tortora esce vivo ancora una volta, ma dal processo così costituito non poteva uscire vivo, lui che volle il microfono della televisione dal letto di agonia per dire che “una bomba atomica mi è scoppiata dentro”, lui che onorò consegnandosi la giustizia che lo aveva disonorato. Qui nelle lettere è nel cominciamento tenebroso della tragedia, è nel suo prologo in teatro, quando ancora può leggere i libri della Yourcenar, quando può informarsi dagli avvocati, e può pensare allo splendore del ritrovamento con la sua Cicciotta ( abbi la certezza che ti amo, non potevamo prevedere che le cose assumessero il passo dell’inferno).

Dopo mesi atroci si accorge che sarà un “liberante”, uno che sta per uscire, che deve preparare la “zampogna”, il fagotto, che deve salutare ed è straziante, lo scrive a Francesca, gli amici della pasta scotta, dei cessi intasati, dell’iperbolica sofferenza carceraria che si aggiunge alla sofferenza del giudizio ingiusto, dell’inchiesta penale guidata dalla mala attraverso le testimonianze da giornalismo tabloid spacciate e credute per vere con la disattenzione senza scrupoli che abbiamo conosciuto. Riceve gli stati maggiori, s’impegna per la politica, che avrà le sue curve e le sue incredulità, le sue nobiltà, e gli consentirà di essere un italiano utile a tutti gli italiani. Ma fino a un certo punto. Il processo Tortora, lo sappiamo, non è mai veramente finito. Il carcere, lo sappiamo, non è tuttora veramente adeguato allo stato di diritto ( per usare un tremendo eufemismo). E ogni tanto penso, mia cara Francesca, che morendo di passione e di dolore il tuo Enzo ha perso tutto, e si è perso a tutti, ma ha guadagnato l’oblio su quel che sarebbe seguito.