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La notizia dell’indagine della Procura di Treviso a carico di una decina di avvocati “rei” di aver fotografato alcuni atti di indagine per non pagare i valori bollati è l’ennesimo, gratuito, oltraggio alla dignità della classe forense.
I commenti si sprecano: alcuni soloni blaterano di “gravissime condotte” mentre i più benigni descrivono i colleghi quali poveri straccioni, disposti a tali espedienti per risparmiare poche decine di euro. In realtà questa vicenda, lungi dal poter essere banalizzata, può costituire uno spunto di riflessione.
Chi, come l’autore di questo articolo, è avvocato da un paio di decenni, è testimone di quanto la classe forense abbia supplito alle carenze del sistema giudiziario. Basti pensare alla consuetudine, superata solo di recente con l’introduzione del Pct, della redazione dei verbali dei processi civili da parte degli avvocati in luogo, come la norma prevede, dei cancellieri. In campo penale, e in particolare nello specifico ambito delle copie degli atti penali, si è andati ben oltre il concetto di “collaborazione”, attuando spesso una vera e propria “supplenza”.
A me e ai miei collaboratori di studio, per esempio, non è mancato di effettuare personalmente le copie presso le fotocopiatrici in dotazione agli uffici; utilizzare proprie risme di carta; in alternativa, portare i fascicoli ai centri copie (pagando anche tale servizio); portare uno scanner portatile per poter eseguire delle copie a colori. Pagando comunque, regolarmente, le marche da bollo. Tali situazioni, in alcuni uffici, sono ancora attuali (sebbene meno frequenti).
Altra premessa. La copia (completa) degli atti è il primo requisito di una difesa adeguata ed efficace, motivo per cui questo autore ha sempre richiesto copia integrale di tutti i fascicoli delle indagini. Tale richiesta, in certe occasioni, è molto costosa, soprattutto quando sono presenti agli atti dei supporti multimediali. La riforma Cartabia, che ha opportunamente introdotto la registrazione della raccolta di sommarie informazioni, ha reso ancora più significativo questo aspetto. Non tutti i clienti, però, hanno la possibilità di spendere centinaia, se non migliaia, di euro, solo per conoscere le fonti delle proprie accuse. Conseguentemente, gli avvocati che non hanno clientele cosiddette “primarie”, devono spesso contemperare esigenze di difesa con logiche di natura economica. E questo vale a maggior ragione per i difensori di ufficio, che nella maggior parte dei casi non conoscono il proprio assistito, e sono costretti ad anticipare spese talvolta superiori ai modestissimi onorari liquidati.
Ultima doverosa premessa. I diritti di copia degli atti dovrebbero rappresentare nulla di più che un corrispettivo per l’espletamento di un “servizio”. Gli avvocati più anziani ricordavano, a noi giovani praticanti, che prima dell’avvento delle fotocopiatrici i cancellieri duplicavano manualmente gli atti di indagine. L’avvento delle nuove tecnologie ha portato alla digitalizzazione dei fascicoli per le indagini preliminari, a beneficio non solo delle parti private e dei loro difensori, ma di tutto il sistema giudiziario, sia per la comoda trasmissione degli atti sia – soprattutto – per la successiva fase di archiviazione.
Venendo al merito della banale questione, l’accusa mi pare del tutto infondata, da un punto di vista strettamente tecnico. Ai colleghi si contesta il reato di truffa, il cui elemento costitutivo del danno da parte dello Stato è rappresentato dal “lucro cessante” della mancata corresponsione dei diritti. Basti osservare che non vi è alcun obbligo di estrarre le copie degli atti di indagine; che sussiste un diritto di consultazione da parte dell’utenza, naturalmente gratuito; che è ovviamente consentito prendere appunti. Scattare una fotografia, in sostanza, costituisce un mezzo – ormai molto diffuso – per prendere appunti.
Mi si obietterà che, a quanto pare, a Treviso vi fosse un espresso divieto di scattare fotografie. Da questo punto di vista, posso convenire che i divieti, se ritenuti illegittimi o insensati, come in questo caso, non vanno ignorati, ma vanno impugnati e contestati. Del resto, ciò che è vietato nella Procura di Treviso rappresenta, invece, normale prassi consentita e – addirittura – favorita in altri uffici, laddove vi è carenza di mezzi e personale.
La singolare vicenda potrebbe – però – costituire lo spunto per una riflessione, da parte dell’avvocatura e soprattutto del legislatore. Come dimostrato dall’improvvida iniziativa della Procura di Treviso, il pagamento dei diritti è ormai considerato non più quale corrispettivo di un servizio, ma una sorta di “tassa sulla difesa”. Un modo come un altro per lo Stato di “fare cassa”. Sarebbe finalmente il caso di stabilire, per legge, che alla conclusione delle indagini tutti gli atti siano consegnati gratuitamente a tutte le parti processuali.
Non vi è nessun motivo, logico, giuridico o contabile che impedisca una soluzione del genere. E ve ne è uno – di ordine statistico – che milita decisamente a favore: la stragrande maggioranza degli indagati poi risulta innocente.