Oltre che per la crudeltà il metodo è noto per la sua efficacia: ti sbatto in prigione finché non confessi, io non ho le prove ma che importa, tanto sarai tu a darmele. È un marchio di fabbrica dei sistemi autoritari, come ad esempio l’Iran per restare nell’attualità. In questi mesi sono state migliaia le confessioni estorte con la forza alle giovani e ai giovani che manifestano contro il regime degli ayatollah, torturati e minacciati, costretti a dichiararsi moharebeh, nemici di Dio per evitare punizioni peggiori.

È proprio questo il modello a cui sembra ispirarsi il giudice istruttore belga Michel Claise, titolare dell’inchiesta Qatargate, per far “cantare” la sua prigioniera eccellente, l’ex vicepresidente dell’europarlamento Eva Kaili, dietro le sbarre da oltre un mese e mezzo. Le sono stati negati gli arresti domiciliari con il braccialetto elettronico nonostante non esista il concreto pericolo di fuga né la reiterazione di un reato che, fin qui, non si sa ancora quale sia. A mancare infatti sono le cosiddette prove, che Claise spera di acquisire continuando a tenere Kaili in prigione in condizioni indegne di uno Stato di diritto come ha denunciato l’avvocato Mihalis Dimitrakopoulos.

Durante l’isolamento Kaili è stata lasciata in una cella di commissariato al freddo, si è vista rifiutare una coperta dai secondini che le hanno anche tolto il cappotto, le è stato impedito di lavarsi malgrado fosse nel pieno del ciclo mestruale e hanno tenuto le luci accese per non farla dormire. Inoltre ha potuto vedere la figlia di 23 mesi privata di entrambi i genitori (anche il compagno Francesco Giorgi è in prigione) solo due volte e per pochi minuti perché in regime di carcerazione preventiva. «Sono tutti atti che violano la convenzione europea dei diritti umani, e vergognoso», ha tuonato Dimitrakopoulos, parlando apertamente di «tortura».

Questo accanimento di stampo “iraniano” appare ingiustificabile e si ha la sgradevole impressione che il giudice Claise stia combattendo una crociata personale, incitato peraltro dal circo mediatico che ha già consumato i suoi verdetti e che soffia continuamente sulle braci del Qatargate e aspetta che lo scandalo prima o poi si «allarghi» come affermano da fine dicembre giornali e tv, confondendo la realtà con la speranza di poter cavalcare l’ennesima stagione giustizialista.