In queste settimane è all’esame della Commissione giustizia della Camera la proposta di riforma del reato di cui all’art. 323 c. p. (l’abuso d’ufficio), già più volte rimaneggiato, considerato da molti amministratori locali una vera e propria “spina nel fianco” poiché impedirebbe loro, per una “firma” sbagliata o di troppo, di esercitare le funzioni pubbliche in osservanza del mandato ricevuto.

Varie le proposte al vaglio, tra cui quella di abolire tout court il reato, cioè abrogarlo, quella che invece lo vorrebbe solamente rimaneggiare ( auspicabilmente in maggiore aderenza del principio di legalità, sub specie del principio di tassatività e determinatezza), ovvero quella che lo vorrebbe solamente depenalizzare in illecito amministrativo, come avviene nella maggior parte dei Paesi europei, trasferendo il focus dalla giustizia penale a quella amministrativa.

Obiettivo di tutte queste proposte di riforma, perseguito in modo più o meno radicale, è di ridurre i margini del sindacato dell’autorità giudiziaria sull’operato degli amministratori pubblici, scrivendo così un nuovo capitolo della tormentata storia dell’abuso d’ufficio.

Di fronte alla possibilità di una cancellazione del delitto di abuso d’ufficio, in particolare, l’ex Pm di Mani Pulite Davigo ha “tuonato”: l’abrogazione costituirebbe una violazione della Convenzione di Merida contro la corruzione, la quale impone agli Stati firmatari di prevedere nell’apparato sanzionatorio penale il reato di abuso d’ufficio. L’osservazione del dottor Davigo - in ogni caso - pare meritevole di attenta analisi, anche in vista dei futuri impegni europei nei quali l’Italia sarà coinvolta: è stata, infatti, presentata ufficialmente lo scorso 3 maggio una proposta di direttiva europea sulla lotta alla corruzione che, all’articolo 11, impegna gli Stati membri a prevedere come reato l’abuso d’ufficio ( abuse of functions), così definito: “the performance of or failure to perform an act, in violation of laws, by a public official in the exercise of his functions for the purpose of obtaining an undue advantage for that official or for a third party”. Se approvata, avrà efficacia nell’ordinamento domestico e - inevitabilmente

- inciderà sulle proposte di governo in materia di abolizione del reato di abuso d’ufficio.

Effettivamente, a livello di obblighi internazionali, tuttavia, già la Convenzione Onu di Merida ( all’art.19), stipulata e ratificata dal nostro Paese con la legge n. 116 del 2009, ripropone quanto in animo al Legislatore Comunitario, là dove impone l’incriminazione nel settore pubblico dell’abuso di vantaggio derivante dalla funzione pubblica ricoperta. Un’eventuale abrogazione tout court della norma esporrebbe allora la legge a un vizio di costituzionalità per contrasto con l'art. 117, comma 1, Cost. (violazione degli obblighi internazionali che impongono una penalizzazione di condotte abusive).

Appare, nel complesso, non saggio percorrere la strada più drastica, anche alla luce della proposta di direttiva europea in cantiere, che potrebbe potenzialmente esporrebbe il nostro Paese a una procedura di infrazione. Certo, non si può non sottolineare come un’eguale levata di scudi da parte del mondo della magistratura ce lo si aspetterebbe (e ce lo si sarebbe aspettato, col tempo) anche tutte le volte nelle quali le istanze di maggior tutela derivino dal mondo dell’avvocatura, testimone altrettanto qualificato (negli anni) delle continue, costanti e silenziose violazioni della normativa internazionale/ comunitaria in materia di giusto processo (nelle sue varie e molteplici declinazioni, dalla fase strettamente processuale sino a quella dell’esecuzione).

Come argomentato da sapiente dottrina, non resta che ipotizzare soluzioni mediane e tali da ricuperare l'essenza del concetto di ' abuso' richiamato dalla norma, tipizzando ipotesi di reale sfruttamento privato dell'ufficio, nelle quali cioè il pubblico amministratore abbia realizzato una distorsione funzionale dell'azione amministrativa, a fini privati o di danno, tracciando il perimetro della condotta rilevante all'interno di un indebito utilizzo dell'ufficio caratterizzato dalla contrapposizione tra interesse privato e pubblico che mini l'imparzialità.