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In una città del Sud, del profondo Sud. Una di quelle città assetate d’estate sol perché durante l’inverno è piovuto poco e perché le falle negli acquedotti non sono mai riparate per bene in modo da mantenere in piedi il mercato dei lavori di somma urgenza da assegnare alle ditte amiche. In una piazza agitata da un popolo esasperato, il prefetto mandato a svernare da Roma per il solito tribolato triennio nel meridione aveva convocato i responsabili dell’acquedotto comunale per chiedere loro di scavare ancora, di raggiungere nuove falde per immettere altra acqua nei pozzi. I malcapitati, dalla coda di paglia, risposero che a farlo avrebbero raggiunto il livello del mare e l’acqua salata avrebbe contaminato per sempre le sorgenti sotterranee provenienti dalla montagna. La risposta fu secca: «Perforate» e l’acqua resta salata da decenni in quella città.
La contaminazione. La politica nazionale, al pari di quel prefetto insipiente, ha delegato per decenni alla magistratura, a tutta la magistratura penale del paese, il compito di fronteggiare ogni emergenza criminale: dal terrorismo all’eversione, dalle mafie alla corruzione, dalla salubrità del territorio alla decozione delle imprese. Una missione, a volte disperata, imposta dalle periodiche crisi di credibilità delle classi dirigenti e dalla percezione dell’insicurezza collettiva. Un esempio per tutti: l’omicidio del generale Dalla Chiesa portò quattro giorni dopo all’approvazione del reato di associazione mafiosa e alla confisca di prevenzione. Un caso tra cento.
Lo si è detto mille volte, ma in poche occasioni si è prestata attenzione a ciò che questa delega intermittente, ma persistente, ha provocato nel sedime più profondo della giurisdizione, nell’autorappresentazione che migliaia e migliaia di magistrati hanno costruito del proprio ruolo e della propria funzione istituzionale e sociale. Un potere dello Stato - staccato per forza di cose dalla legittimazione politica e popolare - ha colto, nell’annodarsi improvviso e costituzionalmente imprevisto di queste relazioni con la committenza politica allo sbando e con l’opinione pubblica impaurita, la giustificazione per approntare una modifica genetica del proprio statuto. Tutto si tiene in questi giorni di polemiche. Un filo sottile, che a coloro che stanno accampati fuori della cittadella giudiziaria spesso sfugge, tiene insieme la destinazione fuori ruolo dei magistrati presso ministeri ed enti vari, le valutazioni di professionalità, l’unicità delle carriere, il controllo di legalità mai come oggi prepotentemente riaffermato quale missione indefettibile della corporazione. Ciascuno di questi profili, uno per uno, incide sull’autorappresentazione che la magistratura tutta - giudicante e inquirente - ha costruito della propria mission istituzionale per come impostasi nella Costituzione materiale del paese e questo, si badi bene, non in forza di complotti o golpe, ma grazie a una mera cessione di sovranità da parte della politica e, spesso, in forza del compiacente vassallaggio di una stampa che, da ostile cane da guardia di ogni potere, si è curata di accucciarsi ai piedi di troppe toghe.
La battaglia per la separazione delle carriere è, probabilmente, una lotta di retroguardia, stantia, inutile come, in fondo, finisce per riconoscere lo stesso ministro Nordio quando afferma che la separazione delle carriere sarebbe stata consustanziale al Codice Vassalli del 1988, imposta dal rito accusatorio. Quarant’anni di ritardo sono un gap incolmabile, un distacco irrecuperabile come proporsi di dissalare le falde di quella sfortunata città del Sud. Ha ragione qualche prestigioso pubblico ministero quando pretende di sottrarsi alla valutazione circa l’esito dei propri processi affermando che si è limitato a formulare richieste di cattura o di condanna e che sono stati i giudici a procedere, ad ammanettare, a condannare. È un gesto, sia consentito dirlo, di una qualche onestà intellettuale che, tuttavia, evidenzia quando convergenti siano ormai la cultura inquirente e quella giudicante, quanto profonda la contaminazione che si è realizzata in questi decenni nell'approccio al processo e alle sue finalità. E questo non è il frutto della sbandierata volontà egemonica di cui si accusa una parte della magistratura o di mere suggestioni mediatiche (al limite, spesso, dell’adorante propaganda) in favore di certi uffici o di singole toghe.
L’emergenza, le emergenze hanno inevitabilmente chiamato tutti alle armi, pubblici ministeri e giudici, rendendo lasco, flou, il controllo giurisdizionale e, si ripete, non per connivenza o soggezione, ma per il peggiore dei pasticci: per una condivisione intima nella lettura storica, sociale, politica e criminale della società italiana resa capillare dall’attività indispensabile delle correnti e dalla stessa formazione curata dalla magistratura nelle sue articolazioni centrali e periferiche.
La giurisdizione è un cuore pulsante, un apparato vitale in continua evoluzione, un centro spesso raffinato di elaborazioni anche complesse cui la governance politica del paese ha assegnato una centralità che, ora ( e non solo ora), spaventa, mette in fibrillazione, inquieta i reggitori politici dello Stato.
Insomma la magistratura ha un’ideologia nel senso più alto e nobile del termine che, poi, è anche la fonte delle degenerazioni autarchiche che si sono scoperte dopo decenni di tolleranza con l'accettazione di selezioni e cooptazioni opache.
L’omologazione dei criteri di interpretazione delle prove, l’affermazione di protocolli sanzionatori a maglie larghe come le misure di prevenzione, la tendenziale annessione di porzioni autorevoli e apicali della magistratura inquirente nelle strutture di sicurezza governativa, il successo dei modelli culturali e mediatici di interpretazione delle mafie, della corruzione costituiscono un plesso difficile da espugnare o anche solo riorientare.
La separazione per Costituzione delle carriere che - come ricorda l’Anm - si è di fatto realizzata con il diradarsi negli anni delle trasmigrazioni dal ruolo giudicante a quello inquirente, non è solo opinabile, ma a questo punto in larga misura anche inutile. Potrà soddisfare le istanze egalitarie dell’avvocatura penale, mitigare qualche contiguità di troppo, recare benefici tra un paio di decenni, ma non è in grado di alterare l’osmosi culturale e ideologica della corporazione. L’unica soluzione praticabile potrebbe essere quella di imporre percorsi formativi ravvicinati, se non in buona parte congiunti, tra le professioni giudiziarie in modo tale che una nuova, profonda contaminazione si possa realizzare tra tutti i protagonisti del processo penale. L’acqua resterà salata per un pezzo, ma qualche potabilizzatore si potrà pur piazzarlo.