L’ultima crociata del governo francese contro la comunità musulmana sfiora il surreale. Il ministro dell’Educazione nazionale Gabriel Attal ha infatti annunciato che nelle scuole sarà vietato indossare la cosiddetta abaya, la lunga tunica (in arabo significa “toga” o “mantello”) che copre il corpo delle donne in alcuni paesi arabi ma che, a differenza del burqa, lascia scoperti volto e mani: «Quando si entra in classe non si deve poter determinare la religione degli studenti», ha tuonato Attal dagli schermi di Tf1, citando la legge approvata dal Partito socialista nel 2004 che vieta l’uso «ostentatorio» di simboli religiosi nelle scuole e negli uffici pubblici. Per quel che riguarda gli istituti scolastici una circolare del 2022 lascia ai singoli presidi la discrezionalità di applicare il divieto, ma le voci più intransigenti del laicismo transalpino trovano questa disposizione troppo morbida.

Il problema però è che l’abaya non è in nessun modo un simbolo religioso. Sulla questione è intervenuto con un comunicato ufficiale il Consiglio francese di culto musulmano (CFCM) non nascondendo la propria irritazione: «Basta visitare qualche paese arabo per rendersi conto che l’abaya viene indossata da persone di ogni confessione religiosa. Stiamo assistendo all’ennesimo dibattito sull’islam con il solito campionario di stigmatizzazioni e luoghi comuni. Ci domandiamo per quale motivo le autorità della nostra Repubblica laica abbiano deciso che l’abaya sia un simbolo musulmano».

Così, in nome della laicità il ministro Attal decide di mettere al bando un indumento che non ha nulla di religioso, facendo della Francia il primo paese occidentale a imporre un simile divieto ai suoi cittadini. Ai tanti che hanno fatto notare la lampante contraddizione, la replica è stata oltremodo disarmante: «Anche se un indumento non è propriamente religioso, può comunque essere vietato nel caso in cui venga indossato per manifestare quell’appartenenza». Insomma, tutto sta nelle intenzioni dell’allieva che lo indossa e, a decidere quali siano quelle intenzioni, c’è il ministro Attal, il presidente Macron e persino i soloni del Consiglio di Stato per i quali una gonna lunga portata sopra dei pantaloni e persino «una bandana troppo larga» sarebbero «segni ostentatori di appartenenza religiosa».

Una nuova polizia dei costumi si aggira oltre le Alpi, già qualche anno fa si era distinta per la grottesca caccia al burquini sulle spiagge della Costa Azzurra: tutti ricorderanno i video con gli agenti che multavano le donne obbligandole a lasciare gli stabilimenti balneari davanti ai propri figli sotto lo scroscio di applausi dell’estrema destra. Oggi si riesce a far di peggio e a sconfinare nel ridicolo scagliandosi persino contro i fantasmi, attribuendo a un tessuto una valenza e un significato che non ha mai avuto nella sua storia. Difficile immaginare una misura più strumentale e divisiva di questa.

È un Iran al contrario, in cui il controllo dello Stato sul corpo delle donne viene esercitato non per promuovere le virtù della legge coranica, ma per difendere quelle della laicità repubblicana: con le dovute differenze in entrambi i casi viene negata alle donne la libertà di autodeterminarsi, in entrambi i casi lo Stato va a ficcare il naso nel guardaroba.

La soluzione formalmente più equa e meno discriminatoria sarebbe l’imposizione dell’uniforme in tutte le scuole della République, e cioè un ritorno all’epoca pre-sessantotto il che sarebbe paradossale almeno quanto il divieto del ministro Attal, se non fosse già da alcuni anni uno dei cavalli di battaglia della destra populista di Marine Le Pen.