Che rimane del Qatargate? Che rimane dell'inchiesta del secolo, della “Mani pulite” europea che avrebbe dovuto purificare le stanze dei “poteri forti” di Bruxelles? Beh, a occhio e croce, resta un cumulo di cenere e la carcassa di una inchiesta che sta morendo per manifesta inconsistenza.

Tutto bene quel che finisce bene, dunque? Certo, tutto bene se non ci fossero un paio di vittime collaterali. Si tratta di vittime in carne e ossa, e parliamo innanzitutto di Eva Kaili, l’ex vicepresidente del parlamento Ue sbattuta in galera per mesi, allontanata dal suo bambino di poche settimane e, infine, scarcerata senza neanche l'ombra di una scusa; ma parliamo anche di un'altra vittima, e ci riferiamo al sistema dei diritti e delle garanzie che, ancora una volta, è stato sacrificato in nome della lotta contro una presunta (e mai provata) corruzione e di una palingenesi promessa e sempre delusa. E, d’altra parte, come poteva essere altrimenti? La “nostra” Mani pulite - madre di tutte le inchieste mediaticogiudiziarie - ha ampiamente dimostrato che è pura follia affidare il cambiamento alle procure.

Del resto l'ambizione moralizzatrice dei magistrati si muove da anni sul filo della umiliazione del Diritto e dei diritti. E l'inchiesta Qatargate non fa eccezione. Non è una caso che gli avvocati degli indagati parlino esplicitamente di “confessioni estorte". E sì perché ormai è accertato che Antonio Panzeri, ovvero colui che avrebbe dovuto essere il Tommaso Buscetta della Tangentopoli europea (sic!), avrebbe confessato sotto minaccia: “Se vuoi moglie e figlia fuori di galera - gli avrebbero fatto capire gli inquirenti - e una condanna a 6 mesi, invece che di 15 anni, devi darci almeno due nomi…”.

Ecco come è iniziata l’inchiesta Qatargate: col tintinnio delle manette e la minaccia della gattabuia. Niente di nuovo, per carità. Qui in Italia sappiamo bene come funziona. E lo sa bene soprattutto Piercamillo Davigo il quale, da anni, con un sofisma di rara sottigliezza, spiega perfettamente l’uso scientifico della galera preventiva nella famigerata inchiesta milanese: “Noi non li mettevamo dentro per farli parlare- ha infatti spiegato l’ex pm del pool - ma li mettevamo fuori dopo che avevano parlato…”.

Ma c’è una terza vittima, ed è la politica. Ancora una volta i partiti ne escono umiliati. Non solo nessun deputato del parlamento europeo ha mai chiesto conto del lavoro degli inquirenti che avevano appena messo in galera la vicepresidente eletta dal popolo, ma si sono affrettati a prendere le distanze dalla loro collega sbattendola fuori dal partito. Complici, anch’essi, di una delegittimazione democratica e istituzionale che genera mostri populistici…