PHOTO
GIOVANNI TOTI, POLITICO
Quando un’inchiesta politico- giudiziaria si conclude senza un processo, l’esito in sé è quasi sempre meno interessante di quanto rimane sotto il tappeto. L’esito è noto, anche se inaspettato. Toti, per citare un noto film, ha ceduto alla “proposta indecente” della Procura di patteggiare a 2 anni e 1 mese, previa riqualificazione di tutti i fatti in “corruzione funzionale”. Conosco abbastanza il suo avvocato, maestro indiscusso dell’arte forense, da percepire tutto il sacrificio di rinunciare a far valere nel processo le ragioni del suo assistito con le capacità e l’esperienza di cui è dotato. Evidentemente, nella condizione data, la proposta era irrifiutabile.
Sotto il tappeto del patteggiamento, però, una volta ancora rischiano di rimanere celate, irrisolte, tante e variegate questioni giuridiche, su cui il mondo del diritto e della politica, spenti i riflettori, dovrebbe interrogarsi.
Quanto ai temi procedurali, credo doveroso perlomeno domandarsi se possa dirsi giusto un processo che consente di spiare la vita di un presidente di regione per tre anni ( diconsi tre) 24 ore su 24 tramite microspie, trojan, videocamere, pedinamenti. Che consente di arrestare e tenere ai domiciliari per tre mesi un presidente di regione, per fatti che lo stesso capo d'accusa affermava essere definitivamente cessati oltre un anno prima ( marzo 2023). Che schiaccia il diritto di difesa imponendo di optare per un rito alternativo in appena 15 giorni dalla notifica del decreto di giudizio immediato, nonostante gli oltre 20 terabyte di materiale d’indagine riversato dalla Procura, nella materiale impossibilità di conoscere tutte le carte in mano all'accusa. Che consente a una parte, l’accusa, di sfruttare la tempistica stringente per proporre un patteggiamento in super saldo, prendere o lasciare in 15 giorni, faites vos jeux, rien ne va plus. Che consente all’Accusa pubblica di ravvedersi e derubricare in mera corruzione impropria tutte le accuse appena un mese dopo che Toti ha dato le dimissioni e nuove elezioni sono state indette, in mancanza di qualsivoglia novità che spieghi il repentino cambio di riqualificazione. È questa la parità delle armi che dovrebbe essere connaturata al rito accusatorio?
Rasserena apprendere quantomeno che la pena finale proposta e accolta è pari a “anni due e mesi uno” e non due anni secchi, che altrimenti sarebbe tornata a vacillare pericolosamente la legittimità iniziale degli arresti domiciliari ( comma 2 bis art. 275 cpp “non può essere applicata la misura degli arresti domiciliari se il giudice ritiene che con la sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale della pena”). Ma, se possibile, non è l’aspetto processuale che più inquieta in questa storia.
Quando Toti afferma di essere stato vittima di leggi populiste, ha ragione da vendere e, se il legislatore non pone rimedio, presto o tardi qualcun altro, magari fra quelli che oggi festeggiano, è destinato a farne le spese. A cosa mi riferisco? Ad almeno due fattori che, combinati assieme, hanno messo fine alla parabola politica di Toti. Mi riferisco anzitutto al solo reato di corruzione che avrebbe commesso Toti, corruzione “per l’esercizio della funzione”; fattispecie introdotta nel 2012, caratterizzata da un coefficiente di specificità talmente esiguo da essere stata ribattezzata “corruzione atipica”. Una primizia tutta italiana, peraltro, basti dire che neppure la recente proposta di direttiva europea sulla corruzione contempla una corruzione svincolata da qualsivoglia atto amministrativo oggetto di mercimonio! Una fattispecie in bianco, che rimette in definitiva alla sensibilità della magistratura la selezione delle condotte rilevanti, con il rischio che vengano raggiunti dalla sanzione penale anche comportamenti solo moralmente non commendevoli.
Come se ciò non bastasse, due anni dopo, nel 2014, è stato abbandonato il finanziamento pubblico diretto della politica in favore di un sistema di finanziamento esclusivamente privatistico dei candidati e dei partiti. Al politico, quindi, il legislatore impone di cercare non solo voti, ma anche, prima ancora, soldi con cui poter sostenere una onerosa campagna elettorale. Ecco servito il cortocircuito normativo. Nel perimetro fluido della fattispecie di corruzione impropria, qualsiasi dazione di contributi elettorali costituisce una potenziale dazione di ‘denaro o altra utilità’ da parte del corruttore e qualsiasi conseguente attenzione del politico verso il proprio finanziatore, anche ove si tratti di interessamento di per sé legittimo e meramente occasionale, può far scattare la tagliola penale.
Se così è - e la vicenda Toti ne è la palmare conferma - o la politica accetta supinamente di vivere dentro una eterna roulette rimessa all’intuizionismo del giudice e alla correttezza processuale della parte pubblica, o sceglie di intervenire con norme chiare, in ambito amministrativo e penale, su ciò che è legittimo e ciò che non lo è… faites vos jeux.