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Uno dei dilemmi del giudice è sempre quello di Antigone: può non applicare una legge che ritiene ingiusta? Nel moderno Stato di diritto bisogna aggiungere una domanda: la disapplicazione lo priva di terzietà e indipendenza? L’argomento è sempre più attuale, come dimostra il caso della contrapposizione tra governo e parte della magistratura originata dalla disapplicazione delle norme del decreto Cutro, poiché ritenute in contrasto con la direttiva europea 2013/ 33.
Italiastastatodiritto ha deciso di approfondire il tema in un webinar, intitolato “Il giudice e la ( dis) applicazione della legge – Riflessioni a margine del caso Catania”, al quale hanno partecipato la professoressa Francesca Biondi, ordinaria di Diritto costituzionale, e Diletta Giuffrida, giornalista di Sky. Il webinar è liberamente consultabile sul canale YouTube dell’associazione.
È indubbio che con il decreto Cutro, per arginare un fenomeno eccezionale e sistematico quale è l’immigrazione di massa, il governo ha fatto scelte oggettivamente forti. La prima è la previsione di una cauzione, di circa 5000 euro, il cui pagamento da parte del migrante è condizione per non perdere la libertà personale in attesa dell’esame della domanda di protezione internazionale. Una novità assoluta per il nostro ordinamento costituzionale, che si espone a rischi di violazione del principio di uguaglianza, fondati su base economica. In altre parole: può paradossalmente rimanere libero il migrante che non ha i requisiti per la protezione internazionale, ma può pagare la cauzione, mentre deve subire la privazione della libertà la persona la cui domanda verrà alla fine accolta.
Nel dibattito è emerso uno scenario complesso, sintomatico della profonda crisi che vive oggi lo Stato di diritto. È infatti sempre più estesa, nel sistema integrato delle fonti, l’incertezza sul perimetro applicativo della legge; ed è inoltre frequente la sovrapposizione tra poteri dello Stato nella genesi del diritto vivente, che poi sono le regole concrete che il cittadino è chiamato a rispettare.
Da una parte, come nel caso del decreto Cutro, abbiamo il primato del diritto europeo sul diritto nazionale. Ciò comporta che il giudice nazionale debba disapplicare le norme nazionali che sono in contrasto con Regolamenti europei: ma poiché la disapplicazione della legge è un atto molto forte, deve essere circoscritto a casi eccezionali, in cui la norma europea non lasci margini di interpretazione. Ed è ampiamente controverso, anche in dottrina, che la direttiva europea del 2013 abbia i requisiti di chiarezza e precisione per consentire la disapplicazione diretta della legge nazionale. Fuori da questi casi, il giudice nazionale deve sollevare una questione pregiudiziale alla Corte di giustizia, se ritiene la legge nazionale in conflitto con norme europee, oppure alla Consulta, se ravvisa un conflitto con la Costituzione.
Questione pregiudiziale che, nel caso concreto, avrebbe comunque comportato la liberazione del migrante. C’è però una tendenza espansiva dei principi europei, e non delle norme, da parte della Corte di giustizia: il rischio è quello di alimentare ingiustificatamente i casi di disapplicazione diretta da parte dei giudici nazionali. Che così scrivono direttamente – e per certi versi anche in modo disorganico – una regola diversa da quella decisa dal legislatore nazionale, e si prestano a fisiologiche critiche sotto il profilo politico, che si sente invaso nella sfera delle proprie competenze. Tutto questo rischia anche di generare incertezza nei cittadini sull’affidamento che va riposto nella certezza della legge.
Nel nostro confronto, è poi emerso che la libertà di espressione, nel nostro ordinamento, è sacrosanta. Tuttavia, soprattutto a fronte di un atto molto forte, quale è la disapplicazione della legge, il giudice deve apparire – e non solo essere – terzo e indipendente. Inoltre, soprattutto se non ritiene di sollevare questioni di pregiudizialità o di costituzionalità, deve esercitare uno sforzo motivazionale rafforzato per supportare la propria decisione.