Femminicidio è un neologismo, potremmo dire che nel suo significato attuale lo inventa, nel 1993, l’antropologa Marcela Lagarde che lo usa per dare un nome a quella forma estrema di violenza di genere diretta contro le donne, prodotto della violazione dei loro diritti umani in ambito pubblico e privato; una violenza che si realizza tramite una serie di maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria o anche istituzionale.

Il femminicidio per la Lagarde non è solo l’atto di chi compie il reato, ma coinvolge anche lo Stato, che non si dimostra in grado di attuare le strategie per evitare che la donna si trovi in una posizione indifesa e di rischio e così la espone a sofferenze fisiche e psichiche, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle istituzioni e alla esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia. In questo senso il femminicidio si differenza dal femmicidio, termine che deve alla criminologa Diana Russell il merito di avere per prima individuato la natura politica, strutturale e genericamente connotata del fenomeno, per cui il femmicidio è l’uccisione, da parte degli uomini, delle donne, proprio perché donne.

Nell’ordinamento penale italiano il termine femminicidio ha fatto il suo ingresso per la prima volta con il dl 93/2013 e poi nel 2019 con il Codice rosso. Non esiste, tuttavia, una definizione comune di femminicidio né tra i 27 Stati membri dell’Ue né nella letteratura scientifica.

Femminicidio è una parola nuova, ancora da definire bene, che indica però un fenomeno antico e ci rammenta che, fino al 1981, nel codice penale c’era l’articolo 587, che prevedeva una pena molto ridotta per chi cagionava la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopriva l’illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia. Addirittura riteneva non punibili le percosse cagionate nelle stesse contro la persona.

Dare al fenomeno il nome di femminicidio, vuol dire uscire da modelli di relazione basati sulla sottomissione e sopraffazione, comprendere che dove c’è violenza non esiste amore. Dare al fenomeno il nome di femmicidio significa portare avanti la rivoluzione culturale che vede uomini e donne uniti nel riconoscimento del valore l’uno dell’altra, nel rispetto reciproco, nel comprendere che la violenza contro l’altra è una violenza contro se stessi.

Per dare al fenomeno il nome di femminicidio si deve partire dal considerare chi è la vittima, chi è l’autore e qual è il contesto in cui è avvenuto l’omicidio, per questo la Commissione Pari Opportunità del Cnf e la Fai hanno raccolto le storie delle vittime di “femminicidio” dal 25 novembre 2022 al 25 novembre 2023: riflettere sul loro sacrificio serve a dare un nome al femminicidio, ad identificare il fenomeno nei possibili aspetti e a combatterlo.

Parafrasando Wittgenstein, secondo cui quando non abbiamo a disposizione una parola per esprimere un concetto, non possiamo formularlo, si può coniugare lo stesso pensiero: quando non abbiamo a disposizione una parola per esprimere un fenomeno, quel fenomeno non esiste. Ognuno di noi può dare il suo contributo per identificare il femminicidio, ognuno è tenuto a farlo. Aiutiamoci a dargli un nome.