Ogni volta che qualcuno mi chiede perché sono a favore dell’eutanasia e del suicidio assistito, spiego che non sono a favore dell’eutanasia e del suicidio assistito ma della libertà e della possibilità di scegliere. Quasi ogni volta aggiungo che questa libertà e che questa possibilità di scegliere sono garantite dalla Costituzione italiana, principalmente dagli articoli 2, 3, 13 e 32 - ma dall’intera carta costituzionale che ruota intorno ai diritti fondamentali della persona.

La nostra libertà è un bene prezioso e di cui dobbiamo continuamente prenderci cura perché, come per tutti gli altri diritti, non è una conquista garantita per sempre. Dopo la Costituzione, ci sono alcune leggi che hanno rinforzato la nostra libertà di decidere se e come curarci e la disponibilità del bene vita. Penso alla legge sulle cure palliative e sulla terapia del dolore e a quella sulle disposizioni anticipate di trattamento, che insiste sulla necessità di un consenso, sulla possibilità di negarlo e sulla legittimità di interrompere qualsiasi trattamento o macchinario.

Il consenso e la libertà di cominciare un trattamento o un macchinario comprendevano già la possibilità di non darlo e di smettere, ma è comunque un bene che ci sia stata una dichiarazione esplicita (ogni persona ha “il diritto di revocare in qualsiasi momento il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento”, si legge all’articolo 1 della legge 219 del 2017 Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento).

La Corte costituzionale, due anni più tardi, ha dichiarato che una parte dell’articolo 580 è incostituzionale, cioè quando non esclude la punibilità dell’aiuto al suicidio in determinate condizioni (la decisione deve essere libera e autonoma, la persona deve avere una malattia irreversibile e avere sofferenze psicologiche o fisiche che lei ritiene intollerabili, deve essere tenuta in vita da un trattamenti di sostegno vitale).

Un altro pezzo di libertà, cui siamo arrivati grazie alla disobbedienza di Fabiano Antoniani e di Marco Cappato, andati in Svizzera perché qui c’era ancora quel resto di un codice normativo poco liberale e precedente alla nostra Costituzione - il Codice Rocco dell’articolo sull’aiuto o istigazione al suicidio che risale al 1930.

Questa disobbedienza e le altre che sono seguite - Elena, Romano, Massimiliano, Paola - hanno lo scopo di condannare quel conflitto tra vecchie leggi e i principi costituzionali. Servono anche a rispondere alla immobilità della politica e del legislatore e a garantire più libertà. Ripenso spesso alle parole dell’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in risposta a Piergiorgio Welby: «Il solo atteggiamento ingiustificabile sarebbe il silenzio, la sospensione o l’elusione di ogni responsabile chiarimento».

Dal 2006, dall’anno della sua morte, non c’è stato che silenzio ed elusione di ogni responsabile chiarimento. E qualche disegno di legge che avrebbe peggiorato le condizioni delle nostre scelte. Una cattiva legge non serve, ovviamente.

E nel frattempo le persone si ammalano, soffrono, non si vedono riconosciuti i propri diritti. L’ultimo caso è quello di Sibilla Barbieri, costretta a prendere un aereo, accompagnata dal figlio Vittorio e da Marco Perduca, per andare anche lei in Svizzera e per poter interrompere una vita diventata per lei diventata intollerabile.

Voglio chiarire che la scelta di Barbieri e Antoniani - così come la scelta di qualsiasi altra persona non è un giudizio sugli altri. Siamo fatti diversamente ed è anche per questo che è giusto garantirci la possibilità di decidere, ognuno per sé, se curarci, come curarci e fino a quando. Nelle stesse condizioni cliniche si può ovviamente scegliere cose diverse e ogni scelta dovrebbe essere riconosciuta. Dal diritto di accedere alle cure e alle diagnosi alla possibilità di contenere i sintomi dolorosi, dalla sedazione profonda al suicidio assistito - e fino alla eutanasia vera e propria. Sono tutte declinazioni della nostra libertà e sono tutte scelte legittime, una volta stabilite le condizioni del suo esercizio.

Nella immobilità politica, come Associazione Luca Coscioni abbiamo scritto e promosso una proposta di legge regionale che si chiama “Liberi Subito” e che serve a rimediare a un limite della sentenza 242, non avere cioè tempi e procedure certi per la verifica delle condizioni previste dalla Corte. Non avere un limite temporale può significare vanificare quel diritto, perché tra ritardi e attese le persone decidono di organizzarsi diversamente oppure muoiono mentre aspettano - penso sempre a Daniela, una donna di 37 anni che è morta in attesa dell’udienza in tribunale dopo il diniego da parte della sua ASL.

Mi auguro che nessuno più debba aspettare per avere una risposta, che nessuno debba soffrire per più tempo di quanto è capace di tollerare. Mi auguro insomma che i nostri diritti siano presi sul serio e protetti.