La recente assoluzione di Kevin Spacey, e ancor di più l’intera vicenda mediatica dipanatasi nell’arco degli ultimi sei anni, offrono l’occasione di riflettere sulla percezione della giustizia penale. La narrazione dei fatti e le reazioni alla sentenza hanno infatti conosciuto una portata mondiale, o quantomeno transatlantica, fenomeno che molto di rado avrebbe potuto prendere forma in un’epoca pre- globalizzata. Gli scandali, il dibattito e anche gli oggettivi eccessi scatenati dal movimento # Me-Too interrogano allo stesso modo gli osservatori europei e americani, e certamente rappresentano nuovi punti di tensione tra garantismo penale e populismo punitivo. Oltre alla classica dinamica del circo mediatico- giudiziario, già tristemente nota per la sua ciclica ripetizione, dinanzi a un caso come quello della star hollywoodiana può essere utile riflettere su un altro aspetto: la sovrapposizione tra il giudizio etico-morale e quello penale.

Non solo nel senso di una errata e sempre più diffusa tensione illiberale che porta a confondere, per dirla con Lysander Spooner, i vizi con i crimini, ma anche nella prospettiva di una evidente incapacità dell’opinione pubblica di scindere laicamente i due piani. In un sistema liberal- democratico, l’unico diritto penale possibile, secondo il principio dell’extrema ratio, dovrebbe essere un diritto penale ' minimo', che si occupi di un perimetro limitato delle condotte umane e lo faccia attraverso una fitta rete di limiti e contrappesi. Proprio in virtù di tale concezione, il processo penale, in particolare se costruito secondo l’architettura del modello accusatorio, non può essere interpretato come strumento epistemologico “supremo” – in quanto la sua funzione non è tanto e non solo quella di giungere a una verità assoluta, o alla soddisfazione delle pretese delle vittime, ma quella di dare vita, nel bilanciamento tra cognizione e diritti individuali, a un percorso garantito a chi è imputato.

L’incapacità di distinguere il piano etico- morale da quello penale, inevitabilmente, finisce per scaricare sul processo aspettative e risultati che esso stesso, per sua natura, non può e non deve offrire, appiattendo, tra l’altro, il dibattito esclusivamente sul dualismo colpevolezza-innocenza.

Un antagonismo che è vitale preservare e difendere, in tutte le sue conseguenze, nella dimensione del procedimento penale, ma che, evidentemente, non può che costituire, sul piano politico e più ampiamente sociale, uno strumento inadatto a una più generale comprensione e valutazione delle condotte umane, che si prestano a interpretazioni che si affacciano ben al di là e ben al di fuori dell’auspicato diritto penale minimo. Non a caso, Luigi Manconi e Federica Graziani nel loro “Per il tuo bene ti mozzerò la testa.

Contro il giustizialismo morale” hanno sottolineato che in questo modo “ si trasforma l’errore in reato e il peccato in crimine, confondendo l’uno nell’altro, come confonde la politica con la morale, la morale con la giustizia, la giustizia con la politica”. In tale contesto, in cui è in atto una evidente “contaminazione teleologica” del processo penale ( come più volte ricordato, tra gli altri, da Oliviero Mazza), oltre all’erosione sempre più marcata del sistema liberalgarantista, il giusto processo, che nasce per difendere l’individuo dalla pretesa punitiva dello Stato, rimane - nel caso della assoluzione - l’unico strumento per provare a mettere a tacere l’incultura della cancellazione.

Tutto ciò, rende difficile un dibattito più ampio, in grado di affrontare questo movimento non solo e soltanto da un punto di vista giudiziario, ma più in generale attraverso una critica sociale, antropologica, filosofica e letteraria. D’altra parte, la cancel culture, arbitraria, distruttiva ed essenzialmente disumana quale può esserlo una folla impazzita, tralascia deliberatamente una serie di interrogativi fondamentali.

Qual è la soglia oltre la quale una condotta si sposta dalla maleducazione o dall’immoralità e approda all’illecito penale? Quale è il grado di certezza al quale bisogna giungere per valutare integrata la penale responsabilità di un individuo? Le ragioni di un tale travisamento del ruolo del processo penale possono legarsi a derive mediatiche della contemporaneità o a ben più risalenti radici culturali. Risulta facile, almeno in via speculativa, rintracciarvi il paradossale risvolto di una concezione panpenalistica che negli Usa non ha prodotto meno danni che in Italia, e che anche Oltreoceano si accompagna sempre più a una profonda sfiducia nelle istituzioni della democrazia rappresentativa.

In questo senso restano meritevoli di attenzione le considerazioni di Paolo Ferrua recentemente apparse sulle colonne di questo giornale: “ in epoca di pan- penalizzazione la politica avverte come inutile fissare regole di comportamento etico, sanzionabili, ad esempio, con le dimissioni: all’espansione del penale corrisponde puntualmente la riduzione dell’eticamente riprovevole. Può così accadere che un deputato assolto, ma carico di gravi responsabilità politiche, sia ‘ celebrato’ in Parlamento come martire dell’ingiustizia umana”. E se la comunità accademica dei penalisti, è concorde nel rifiuto di un diritto terribile concepito, come scriveva Filippo Sgubbi, quale “ rimedio giuridico a ogni ingiustizia e ogni male sociale”, oggi assistiamo a una deriva in qualche modo ancora più pericolosa.

L’idea che la sanzione sociale non solo debba precedere la sentenza processuale (tranciando la presunzione d’innocenza), ma addirittura prescindere da essa, come accaduto nel caso eclatante di Woody Allen, anche negli ultimi giorni contestato a Venezia da un (pur minoritarissimo) gruppo di sedicenti femministe. Un passaggio dal pan-penalismo a una sorta di “post-penalismo”; una notte in cui tutte le vacche sono nere e che rende indistinguibili la totale insussistenza del fatto ( come nel caso di Allen), la mancata rilevanza penale della condotta inopportuna ( come avvenuto nel caso di Spacey) e la effettiva colpevolezza. Sembra di assistere, in definitiva, alla società da cui ci aveva messo in guardia Learned Hand, una società che “sfugge alle proprie responsabilità, abbandonando ai tribunali lo spirito della moderazione”, dimenticando che quest’ultimo, così facendo, è destinato a sparire.