Mercoledì la Cassazione, dichiarando inammissibile il ricorso della Procura Generale di Milano, ha messo la parola fine sull’annosa vicenda penale relativa ai derivati Alexandria e Santorini sottoscritti dal Monte dei Paschi di Siena tra il 2008 e il 2012. Resta così confermata la sentenza con cui la Corte d’Appello di Milano nel 2022 ha assolto tutti gli imputati ribaltando la sentenza di primo grado che aveva condannato, tra gli altri, gli ex vertici dell’istituto, per manipolazione del mercato, falso in bilancio, falso in prospetto e ostacolo all’autorità di vigilanza.

Sempre nella giornata di mercoledì la Corte d’Appello di Reggio Calabria ha condannato Mimmo Lucano (l’ex sindaco di Riace) per il reato di falso (in vero, per solo una delle 57 delibere contestate dall’accusa) alla pena di un anno e sei mesi di carcere con pena sospesa. Assolvendolo, invece, da tutte le altre (ben più) pesanti accuse (associazione a delinquere, truffa, abusa d’ufficio, falsità ideologica, peculato, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina), raccolte in 19 capi di imputazione, per cui in primo grado il Tribunale di Locri gli aveva inflitto 13 anni e due mesi di carcere (quasi il doppio di quelli chiesti dalla Procura), benché la Cassazione e il Tribunale del Riesame di Reggio Calabria avessero già, in sede cautelare, stigmatizzato l’inconsistenza del quadro accusatorio.

Le due vicende ebbero un’ampia eco mediatica quando le rispettive indagini fecero scattare misure restrittive, terremotando la Banca (poco dopo, nel 2017, salvata dalla ben nota “ricapitalizzazione precauzionale” ad opera dello Stato) e travolgendo l’allora sindaco Lucano e il sistema di accoglienza da questi promosso nel suo territorio.

Oggi, pertanto, c’è chi si rallegra perché i recenti provvedimenti confermano che il nostro sistema giudiziario è capace di ribaltare pronunce di primo grado che, alla prova di un vaglio più attento, risultano infondate. È una caratteristica questa che deve qualificare qualsiasi sistema che voglia realmente orientarsi a criteri di giustizia. E che la nostra Costituzione garantisce assicurando i tre gradi di giudizio proprio al fine di tutelare i consociati contro i rischi di decisioni errate. Ma non c’è solo da compiacersi. Quanto, piuttosto, da riflettere su (almeno) due circostanze.

La prima. La capacità del nostro sistema di correggere gli errori giudiziari non va data per scontata. Essa va, al contrario, difesa e valorizzata. Perché è sempre incombente il rischio che, nell’intento (sacrosanto) di abbreviare la durata dei processi e il carico dei ruoli, il legislatore riduca gli strumenti a disposizione delle parti per impugnare le sentenze ritenute ingiuste e imponga ai giudici di applicare filtri di ammissibilità finalizzati a decimare le impugnazioni da esaminare. Ciò, purtroppo, è quanto, per certi versi, avvenuto negli ultimi lustri sul versante civile.

Tra l’altro, con i quesiti di diritto nei ricorsi per Cassazione (art. 366bis c.p.c., introdotto nel 2006 e abrogato nel 2009), con il c.d. filtro in appello (art. 348bis c.p.c., introdotto nel 2012) e con la previsione per cui non può impugnarsi in sede di legittimità un provvedimento che risulti conforme alla giurisprudenza della Corte se l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare tale orientamento (art. 360bis, n. 1, c.p.c., introdotto nel 2009). Senza considerare le norme sui criteri redazionali degli atti introdotte dal Decreto 7 agosto 2023 n. 110 in attuazione della Riforma Cartabia, e cioè del d.lgs. 149/2022.

La seconda. In Italia, la manifesta disparità di valutazione da parte di procure e giudici, o da parte di giudici con funzioni o gradi diversi, sono all’ordine del giorno. E questo in ogni ambito. Ciò mina in profondità la credibilità del sistema e determina una sostanziale inversione di ruoli tra legge e giudici per cui ciò che conta, alla fine, è quel che pensa il giudice e non quello che afferma la legge.

Le nefaste conseguenze sociali, economiche e istituzionali di una situazione del genere sono di tutta evidenza. Il che impone una riflessione a riguardo anche, e soprattutto, agli operatori del diritto. I quali dovrebbero considerare la certezza delle regole e l’applicazione omogenea delle stesse come un valore cardine del sistema. E dovrebbero, pertanto, comportarsi di conseguenza. Ad esempio, rifuggendo ogni approccio aprioristico, ideologico, superficiale o anche solo mosso da genuino impeto giustizialista.