Da Emiliano a Toti, dalla Puglia alla Liguria la magistratura ha calato il suo asso anche su questa tornata elettorale. Un caso? Forse sì. Forse è solamente il fato che ha deciso la singolare coincidenza tra la chiusura di un’indagine iniziata ben 4 anni fa – parliamo dell’inchiesta genovese che ha portato il governatore Giovanni Toti ai domiciliari – e la vigilia di un voto europeo dal grande significato politico.
Come del resto sono state casuali e non volute le indagini pre-elettorali che nel recente passato hanno travolto Mario Oliverio in Calabria, Vincenzo De Luca in Campania, Marcello Pittella in Basilicata, Attilio Fontana in Lombardia, Vasco Errani in Emilia, Christian Solinas in Sardegna e tanti, tanti altri. Insomma, l’elenco di queste “singolari casualità” è davvero lungo, tanto che viene il sospetto che non si tratti solo di fato. E se è vero che a pensar male – come suggeriva buonanima Giulio Andreotti – si fa peccato, è pure vero che spesso ci si “azzecca”.
Il fatto è che la nostra magistratura, la nostra politica, e persino la nostra società civile, sono ancora prigioniere dello schema tangentopoli. Dal ’92 a oggi, dall’esplosione di “Mani pulite” alla presunta “connection” ligure, l’Italia appare incastrata dentro quel modello, quella relazione malata tra politica, Procure e “paese reale”.
I partiti, ridotti a meri comitati elettorali, hanno infatti delegato alla magistratura il controllo etico delle proprie candidature. E del resto la cosiddetta black-list che ogni anno sforna l’Antimafia, ovvero la lista dei cosiddetti “impresentabili”, è la dimostrazione più clamorosa di questa delega in bianco. La nostra commissione parlamentare Antimafia, ridotta a ruolo di questura, ha rinunciato da anni alla comprensione profonda del fenomeno mafioso e ormai non fa altro che ispezionare il casellario giudiziario di ogni singolo candidato segnalandone l’“impresentabilità” sulla base di un’indagine o, addirittura, di una semplice informativa.
E in tutto questo, di fronte all’evidente sfondamento di alcune Procure nel campo della politica, i partiti si dividono, litigano come i polli manzoniani di Renzo.

Come altro interpretare le scene di giubilo del centrodestra di fronte alle disgrazie pugliesi del governatore Michele Emiliano e del sindaco di Bari Antonio Decaro? E come altro leggere, d’altro canto, le parole di malcelata e indignata soddisfazione da parte del Pd e dei 5 Stelle di fronte all’arresto di Giovanni Toti? Volete un esempio? In attesa del primo interrogatorio del governatore ligure, l’ex premier Giuseppe Conte ha già espresso la propria personalissima condanna: «Gli arresti in Liguria confermano che c’è una questione morale ancora aperta, Toti ne tragga le conseguenze».
L’unica voce dissonante arriva dalla renziana Raffaella Paita. Forse per il fatto che lei un’indagine mediatica l’ha subita sulla propria pelle – fu accusata e poi assolta nell’inchiesta sulle alluvioni in Liguria – Paita ha infatti dichiarato che lei avrebbe voluto sconfiggere Toti politicamente e non giudiziariamente. Chapeau.
Ma è una voce dissonante, isolata, la gran parte della politica è miope, ha il fiato corto. Cavalcando le altrui disgrazie giudiziarie, la nostra politica conferma quello schema malato, avalla la propria “soggezione psicologica” nei confronti di alcuni magistrati.
Sogniamo un paese in cui maggioranza e opposizione abbiano la forza e la caratura di invocare la presunzione di innocenza anche nei confronti del peggior avversario politico. Non è fair play ma senso delle istituzioni, conoscenza del diritto e, hai visto mai, rispetto della nostra Costituzione. Ma forse è chiedere troppo.