«Mi ritengo un moderato su tutto, ma sull’eutanasia no, sono un radicale assoluto. Ognuno ha il diritto di scegliere la propria vita così come la propria morte. Io, per questo diritto non smetterò mai di battermi». Le convinzioni sul fine vita di Indro Montanelli sono sempre state eretiche all’interno della destra italiana, anche se di quella destra Montanelli è stato con ogni probabilità l’intellettuale più importante del dopoguerra. Negli ultimi anni di vita (è scomparso nel 2001) sulle colonne del Corriere della sera il giornalista e scrittore ha difeso in modo incessante e polemico la libertà di ogni individuo «a scegliere come e quando morire», definendo quella scelta «il più elementare e supremo di tutti i diritti».

Ma non era ottimista Montanelli, sapeva benissimo che in Italia i nemici dell’eutanasia sono una falange agguerrita a cominciare dalla Chiesa cattolica, dal suo monopolio culturale sui temi etici e dallo stuolo di baciapile che ne hanno fatto una trincea. Da laico e ammiratore della Riforma protestante, non poteva tollerare l’ingerenza del Vaticano nella sfera intima e dolente delle persone e soprattutto non poteva accettare un Dio che arrecasse sofferenze gratuite ai suoi fedeli, tutto il contrario di quella pietas cristiana patrimonio morale anche per i non credenti.

«Smetta la Chiesa di chiedere ai vivi scusa per i tanti morti che ha seminato lungo il suo cammino, e riconosca all’uomo il più elementare dei diritti, quello di decidere il quando e come della propria morte», scriveva nella Stanza, la rubrica di corrispondenza con i lettori che teneva sul Corriere. Ma per Montanelli il Vaticano non predica nel vuoto, non è l’unico responsabile dell’ipocrita tabù che circonda il fine vita; c’è la Legge «che sfodera un rigore da Sant’Uffizio» e i medici con il loro «fasullo e sussiegoso codice di Ippocrate», una copertina ipocrita per giustificare la propria mancanza di coraggio civile.

In una destra imbevuta di tradizionalismo cattolico la voce, autorevole, di Indro Montanelli è rimasta quasi isolata ma non del tutto solitaria. Un altro importante giornalista organico alla destra italiana che si è sempre battuto per la libertà di scelta è Vittorio Feltri, meno irregolare e più divisivo di Montanelli ma legato al venerando collega dallo stesso laico fervore nel difendere il diritto inviolabile a decidere come e quando porre fine alla propria esistenza e nell’opporsi allo spirito curiale che pervade il campo dei conservatori italiani.

Durissime le riflessioni di Feltri, che quando affronta il tema dell’eutanasia sembra trasformarsi in un giacobino iconoclasta e impenitente: «Una persona sarà padrona di gestire la propria esistenza o no? Secondo i bacchettoni siamo creature di Dio non in grado di stabilire la data del nostro decesso, ma costretti a rispettare gli ordini celesti. Patiamo? Pace amen. Per toglierci dalle balle dobbiamo aspettare la chiamata dal cielo. E dedicare il dolore fisico e mentale al signore che poi ci premierà, forse, col paradiso, luogo ignoto da cui non ci giungono segnali utili a farci comprendere di cosa si tratti».

Uno degli articoli più toccanti mai scritti da Feltri su questo tema risale al 2011, all’indomani della morte del comunista libertario Lucio Magri che, afflitto da una fortissima depressione andò a terminare i suoi giorni in una clinica svizzera. Un avversario politico ma anche un amico di gioventù che «ha visto svanire i suoi sogni», un uomo tormentato da «tetri pensieri» che non poteva più respingere, vedovo dell’amata moglie e del socialismo che non si è mai realizzato in terra: «Cosa doveva fare, fissare il soffitto e passare notti insonni... In attesa di chi e di che cosa? Ha recuperato la forza di bere il calice della morte, mentre i medici lo idratavano per rendere meno aspro il sorso del­l’addio. Non pietà, onore a Lucio Magri».