Non che i limiti degli influencer fossero ignoti. Ma mai come ora i maghi dei social sono vulnerabili. Un niente, e finiscono a loro volta tempestati di accuse, per non dire di altro. Succede pure a Lorenzo Biagiarelli, compagno di Selvaggia Lucarelli, sotto attacco da ieri mattina sulle edizioni on line di vari giornali ma pure da parte di migliaia di utenti sulle solite piattaforme.

L’accusa, probabilmente esagerata, è aver provocato il suicidio della povera Giovanna Pedretti. Il punto è capire cosa è cambiato, cosa è improvvisamente scattato. Perché influencer e dominatori della rete subiscono l’onta di una terribile impopolarità. E pagano costi alti, almeno nel caso di Chiara Ferragni, indagata da varie Procure e sospettata ormai di ogni nefandezza. Certe cadute repentine e rovinose portano fatalmente al 92-93, all’anno orribile della politica italiana: prima l’indagine milanese su Mario Chiesa, poi lo tsunami multiplo di tangentopoli, con l’inchiesta Mani pulite clonata dai pm di tutta Italia. Ovunque politici in manette o comunque costretti alle dimissioni, e su tutto la sparizione rapidissima e quasi totale dei partiti che avevano governato oltre quarant’anni di storia italiana.

Anche allora bastò poco per cogliere la stranezza del crollo: che girassero tangenti, che la politica vivesse anche di traffici illegali, era intuitivamente chiaro alla stragrande maggioranza degli italiani. Ma mai un magistrato si era sognato di mettere in discussione un intero sistema politico. Pochi casi isolati di arresti e condanne per corruzione – il più noto è lo scandalo Lockheed – punteggiano il secondo dopoguerra. Negli anni Ottanta si è realizzato certamente un exploit, ma non è che l’intermediazione retribuita assicurata dai politici fosse una pratica esoterica. Era diffusa, e soprattutto intuita da moltissimi cittadini, magistrati compresi. Anche allora scattò improvvisamente qualcosa. Nello specifico, bastarono la crisi economica che si aprì rapidamente dopo la caduta del Muro e la fine del socialismo reale: il quadro globale che aveva spinto la superpotenza Usa a favorire protezione sociale e un certo grado di benessere in molti Paesi alleati (innanzitutto in una terra geopoliticamente di frontiera come l’Italia) si sbriciolò con impensabile velocità. Nel ’92 la crisi comincia a farsi opprimente e si traduce subito, per gli italiani, in tagli e sacrifici. Nel giro di pochi mesi in molti si assieperanno sulle gradinate dei Palazzi di giustizia come se fossero spalti di uno stadio, dai quali inveire contro i partiti e inneggiare ai pm.
Gliela facemmo pagare, alla politica. Le facemmo pagare la delusione di aver visto improvvisamente franare il castello di certezze sul quale si reggevano la società, l’economia, la vita di tutti. Ci dimostrammo incapaci di capire – o più probabilmente fingemmo di non capire – che la storia era irreparabilmente cambiata. Né Bettino Craxi né Giulio Andreotti e neppure tutti gli altri, fino agli ultimi peones, avrebbero potuto impedire quel passaggio d’epoca.
Ma qui certo l’analogia tra influencer in disgrazia e fine dell’ancien régime si complica. A voler spingere il discorso alle estreme conseguenze, dovremmo chiederci quale sarebbe la delusione di cui improvvisamente chiediamo conto ai “divi dei social” come Biagiarelli, Lucarelli o Ferragni, fino a pochi giorni fa intoccabili. Forse con lentezza, pur nell’ipnosi quotidiana a cui ciascuno di noi è sottoposto, cominciamo a comprendere quanto sia frustrante il mondo racchiuso nel nostro smartphone o al più tra lo schermo e la tastiera dei nostri pc. In forma quasi impercettibile si fa strada la consapevolezza che la vita è tutta altrove, e che il digitale è una gabbia disumana, se non lo si prende per quello che è: uno specchio magico in cui però non può esaurirsi un’intera esistenza.

E forse anche stavolta, come trent’anni fa, abbiamo deciso di prendercela con le persone sbagliate. Perché se qualcuno ci ha incoraggiati a perderci nella selva virtuale, basta essere adulti per sapere che questo non è un alibi. Siamo noi che ci siamo voluti perdere. E se è così, ecco, un po’ dell’ipocrisia del tifo dipietrista riaffiora anche nell’improvviso rivoltarci contro le divinità social, cadute più in fretta di Craxi.