Con la proposta governativa di introdurre test psicoattitudinali per i candidati prima del concorso si è aperto un altro fronte nella più che trentennale guerra tra politica e magistratura. I test dovrebbero essere somministrati a tutti gli aspiranti magistrati ma l’intenzione profonda del progetto riguarda soprattutto i futuri Pubblici Ministeri. A loro si pensa in particolare perché un Pubblico Ministero maldestro o disinvolto può distruggere la vita di una persona con una semplice informazione di garanzia o una iscrizione nel registro di notizie di reato che spesso vengono subito rese pubbliche. E neppure una assoluzione successiva ripara i danni subiti.

Al di là di ogni valutazione di schieramento o ideologica, sempre da evitare, nel merito comunque è una proposta assai poco praticabile. Basti pensare che bisognerebbe somministrare a tutti i candidati probabilmente le 567 domande del Minnesota Multifasic Personality, il test più comune anche nelle perizie giudiziarie, che comporta anche un colloquio finale con uno psicologo o uno psichiatra. Un lavoro enorme per una macchina concorsuale già sovraccarica e comunque dai risultati incerti. Un approccio infatti che è certamente utile in altri contesti e in situazioni singole come la decisione sull’affidamento dei figli ma difficilmente lo è su una massa di persone.

Il vero problema da affrontare e di cui non si parla mai è quello del reclutamento dei magistrati ormai sul piano qualitativo del tutto insoddisfacente. Oggi i magistrati sono molto frequentemente ragazzi di meno di trent’anni che spesso hanno vissuto solo in famiglia, che non hanno quasi nessuna esperienza di vita, non hanno maturato una conoscenza delle dinamiche della società, dei fenomeni collettivi in continua trasformazione, che non hanno mai conosciuto sul piano psicologico personale le difficoltà e anche i dolori. Sono anche spesso carenti di cultura generale, soprattutto in quelle materie psicologiche, sociologiche, mediche che servono per fare il magistrato. Anche l’italiano dei candidati, ci raccontano i commissari d’esame, è spesso zoppicante. Sono quelli che poi scrivono sentenze astruse, incomprensibili e piene di termini tautologici e astratti.

Con la nuova disciplina del concorso, che non è più di secondo grado ma può essere affrontato subito dopo la laurea, i candidati non devono nemmeno aver svolto un tirocinio o un corso di specializzazione. Chi vince ha semplicemente azzeccato 3 temi, magari con un po’ di fortuna. C’è chi conosce perfettamente le sentenze della Cassazione ma non molto di più. Eppure il concorso dà loro diritto di decidere su ogni aspetto della vita dei loro concittadini, dalla libertà personale ai beni economici, dalla vita familiare all’onore personale. In più per gli stranieri di decidere sul loro diritto o meno di essere accolti in Italia. Una volta vinto il concorso i magistrati non vengono più sottoposti a verifiche perché tutti sappiamo che le valutazioni di professionalità sono a risultato automaticamente positivo, non solo per i mediocri ma anche per gli incapaci che rimarranno comunque sino alla pensione.

Una volta vinto il concorso l’immenso potere ottenuto, non più reversibile, rischia di produrre una pericolosa dilatazione dell’Ego. Tutti ne conosciamo, e qualcuno che legge forse anche sulla propria pelle, qualche esempio. È una situazione che non ha paragoni in nessun altro settore produttivo, terziario o intellettuale. Nemmeno nel mondo politico in cui bisogna almeno essere rieletti. Per superare questa situazione il reclutamento dovrebbe essere articolato in modo diverso e più approfondito. Se ne può ipotizzare una traccia, superando l’idea del vaglio unico che dà ben poche garanzie

Si può ipotizzare un primo concorso dopo la laurea, unico anche per gli aspiranti avvocati, utile quindi anche ai fini di una comune formazione professionale, e che dovrebbe dare un iniziale titolo abilitativo. Per chi intende svolgere il lavoro di avvocato sarebbe titolo per esercitare la professione. Poi serve un periodo di almeno 3-4 anni in cui chi ha superato il primo concorso si forgia, deve svolgere un lavoro nel settore pubblico o privato che sia, avvocato, cancelliere, insegnante, dirigente d’azienda o qualsiasi altro che comporti un contatto col mondo e un sistema di regole. Oppure in alternativa deve frequentare un corso di formazione serio. Sarebbe questo il vero test psico-attitudinale con cui si dimostrano le capacità, si può ottenere la conoscenza effettiva di una persona e in cui possono venire a galla le controindicazioni anche psicologiche o comunque di equilibrio e di carattere.

Poi si dovrebbe prevedere un secondo concorso, che tenga conto anche delle esperienza maturate e che quindi si svolgerebbe di norma intorno ai 33- 35 anni, per entrare, solo allora, in magistratura. In sostanza il vero test psicoattitudinale è la maturità e l’esperienza di vita. Un progetto quindi simile a quello dell’ordinamento francese in cui ad un primo concorso segue una formazione seria di 2 anni presso l’École Nationale de la Magistrature e poi un concorso finale. Solo al termine di questa formazione, in cui sono previste anche prove pratiche, si diventa magistrato. Chi frequenta il corso riceve una indennità economica per evitare scremature per censo. Sistemi più o meno analoghi esistono in Germania, Spagna e Portogallo e in altri paesi europei mentre nei paesi di lingua inglese la scelta è operata in genere su avvocati e altri professionisti che hanno una significativa esperienza nel rispettivo ambito.

La cosa curiosa è che negli anni ‘70, quando non c’era ancora la guerra tra politica e magistratura, era stato proprio il CSM a presentare al Ministro di Giustizia un progetto abbastanza simile. Prevedeva infatti anch’esso un primo concorso di tecnica giuridica, poi un corso di 3 anni con valutazioni periodiche, non destinato a promuovere tutti ma di autentica selezione, con un giudizio di idoneità finale alle funzioni giudiziarie. Era prevista anche una prova di cultura generale per verificare il possesso delle conoscenze storiche, sociologiche economiche indispensabili per la formazione culturale del giudice.

E, per un curioso paradosso della storia, nessuno lo ricorda più, il progetto del CSM prevedeva anche una valutazione medico-diagnostica in merito all’assenza di turbe o problemi comportamentali che rendessero il candidato inidoneo alle funzioni giudiziarie. Purtroppo del progetto non se ne è fatto nulla. Certo esiste oggi una buona Scuola Superiore della Magistratura ma chi segue le lezioni è già un magistrato e la Scuola non seleziona nessuno, basta la frequenza.

In sintesi: a qualsiasi progetto si voglia pensare non abbiamo bisogno di magistrati “istantanei” post-laurea ma di persone formate e complete di cui essere certi che siano in grado di giudicare gli altri.