Il recente protocollo operativo sulla giustizia riparativa, elaborato con “il contributo concorde” degli Uffici giudiziari milanesi, dell’Ordine degli Avvocati e della Camera Penale di Milano, riporta l’attenzione su un tema rimasto finora ai margini delle critiche rivolte alla riforma Cartabia. L’accordo si inscrive nella consolidata tradizione di una procedura penale circondariale fondata su strumenti di soft law di dubbio valore precettivo. Il metodo seguito pone di per sé alcuni interrogativi: il localismo normativo è compatibile con il giusto processo regolato dalla legge ( art. 111 comma 1 Cost.)?

Si può rinunciare al principio di legalità processuale, unica vera garanzia riconosciuta agli imputati in ogni ordinamento democratico, in nome di una cooperazione rafforzata fra magistratura e avvocatura? Quale sarebbe, soprattutto, la ragione che imporrebbe di codificare prassi applicative praeter legem in materie già disciplinate dalla legge? Il protocollo milanese dimostra, inoltre, come la giustizia riparativa sia stata accolta acriticamente da una larga parte dell’avvocatura, che forse non ne ha colto appieno il carattere potenzialmente esiziale per un sistema penale di impronta liberale.

L’abbandono del principio di laicità del diritto penale in favore di un sistema punitivo declinato su parametri di carattere etico apre scenari preoccupanti, primo fra tutti l’azzeramento delle garanzie processuali quale corollario pressoché indefettibile della confusione fra diritto penale e morale. A questa regola non fa purtroppo eccezione il decreto legislativo 150 del 2022. A cadere sotto i colpi della riparazione etica è la presunzione d’innocenza, calpestata dal potere ufficioso del giudice di inviare l’imputato, anche contro la sua volontà, al centro per la giustizia riparativa. La componente consensuale non riguarda, infatti, l’accesso, ma solo la prosecuzione del programma, ed è proprio l’invio iussu iudicis – nel lessico legislativo- postale l’imputato è considerato alla stregua di un pacco che viene inviato – a segnare lo strappo con la presunzione d’innocenza. Se il giudice considerasse non colpevole l’imputato, come gli imporrebbe l’articolo 27 comma 2 Cost., non potrebbe mai inviarlo al cospetto della persona offesa per tentare la riparazione di un torto non commesso.

La giustizia riparativa presuppone ruoli ben definiti, colpevole e vittima, che sono esattamente all’opposto di quelli delineati dalla presunzione d’innocenza che governa il processo di cognizione. Basterebbe questa elementare considerazione per cogliere la palese illegittimità di qualsiasi intersezione fra cognizione e mediazione.

Per rispettare la presunzione d’innocenza, la giustizia riparativa dovrebbe rimanere un fiume carsico pronto a emergere solo in caso di esito positivo e gestito direttamente dagli interessati al di fuori del processo penale. Al contrario, la legge, e ora anche i protocolli, prevedono che sia proprio l’autorità procedente, compreso il pubblico ministero nel corso delle indagini, a sovrapporre la mediazione, che presuppone ruoli e responsabilità definiti, con la fase dell’accertamento.

Nel caso del pubblico ministero si aggiunge l’ulteriore violazione della regola basilare di un processo di parti per cui l’accusa non può imporre alla difesa una scelta processuale come quella di presentarsi dinanzi al mediatore. Ancora più sconcertante è la previsione che non consente la presenza del difensore al tavolo della giustizia riparativa, al quale invece sono invitati addirittura i rappresentanti della comunità in cui si sarebbe compiuto il reato.

È ammissibile escludere l’assistenza difensiva nel momento stesso in cui l’imputato è chiamato a rendere confessione dinanzi a un funzionario pubblico ( il mediatore), nel corso di un procedimento incidentale rispetto a quello penale? Il difensore può essere considerato un elemento di disturbo per la composizione del conflitto interindividuale?

La tutela della dignità della professione forense e dei fondamenti del giusto processo sono questioni pregiudiziali che vanno affrontate prima di procedere a qualunque forma di sperimentazione, e che mi auguro siano fra i temi del prossimo Congresso Ucpi di Firenze. Occorre una seria riflessione per arginare la pericolosa cultura del processo penale penitenziale.