Quarto grado di giudizio: è quello a cui è stato sottoposto ieri sera Massimo Bossetti al programma di Rai2, Belve crime, condotto da Francesca Fagnani. Settantaquattro minuti di faccia a faccia dal carcere di Bollate, dove l’uomo è rinchiuso da undici anni per l’omicidio di Yara Gambirasio, il muratore di Mapello è stato sottoposto ad un vero e proprio “interrogatorio” dalla conduttrice, che sembra aver indossato le vesti del pubblico ministero, abbandonando quelle della giornalista curiosa, brillante, empatica che abbiamo imparato a conoscere nel suo format originario.

Se è vero che ci ha abituato a interviste scomode ai suoi ospiti, qui lo scontro dialettico è apparso subito impari. Da un lato una professionista del giornalismo, dall’altro un uomo in una posizione di debolezza fisiologica, quella di un condannato all’ergastolo dietro le sbarre, e privo degli strumenti concettuali per fronteggiare l’accavallarsi delle domande. O meglio delle continue obiezioni da stanza degli interrogatori o da Aula di Tribunale sollevate dalla Fagnani rispetto ai racconti forniti dall’ex muratore su quella triste vicenda. Una storia tragica per due famiglie: quella di Yara ma anche quella di Bossetti.

Da un lato due genitori che hanno perso una figlia – dolore inimmaginabile e incommensurabile il loro – dall’altro lato anche però un uomo che da un momento all’altro ha visto la sua vita sconvolta: condannato al carcere a vita per un delitto che dice di non aver commesso, ha scoperto durante le indagini e il processo che il suo padre biologico non era quello che lo ha cresciuto e che sua moglie lo tradiva. Ma nessuna minima empatia è trasparita verso di lui durante la puntata. Anzi, è sembrato che, invece di ripercorre la vicenda giudiziaria, si sia voluto guardare dal “buco della serratura” della cella di Bossetti. Perché, infatti, dedicare diversi minuti dell’intervista alle preferenze dell’uomo sulla depilazione dell’organo genitale femminile? L’obiettivo della Fagnani, forse, era quello di far emergere una corrispondenza tra quella sua intima predilezione emersa in fase di indagini e una lettera inviata a una detenuta. «Ammetterà che è una strana coincidenza» ha commentato la Fagnani. E Bossetti: «in carcere ti viene a mancare tutto».

Come scrisse Ennio Amodio nel celebre libro “Estetica della giustizia penale” «l’anchorwoman innesca una marcia che porta ad accrescere il valore probatorio degli elementi acquisiti»: indossando metaforicamente una «veste sacerdotale» alimenta la «narrativa accusatoria». Ed è in questo modo che a noi è apparsa la conduzione della Fagnani. Legittimo, sia chiaro. Anzi, a dire il vero il pubblico ha gradito. Lo spin off del format Belve ha raccolto infatti un boom di ascolti: 1.570.000 di telespettatori, pari al 12,4% di share. Tuttavia, considerato che in rete e sulla stampa il paragone con il programma “Storie Maledette” di Franca Leosini è venuto inevitabilmente fuori, ci viene da dire che quello andato in onda martedì è uno spettacolo che nulla ha a che vedere con lo storico programma di Rai3, il cui sottotitolo era «capire, dubitare, raccontare», non riprocessare e ricondannare.

Fu la stessa Leosini a dichiarare in una intervista al Corriere della Sera: «I processi non si discutono, è ovvio. E l’unica verità è la loro. Ma i processi si interpretano. Con umanità». Ecco, forse è mancata proprio quella umanità nella conduzione della Fagnani, quella ‘pietas’ - nel senso comune ed etimologico - che si dovrebbe ad un uomo già profondamente segnato dalla vita, seppur per sua colpa, come stabilito da tre sentenze. 

Ha commentato al Dubbio il suo storico legale, Claudio Salvagni: «Le interviste sono sempre delicate, soprattutto quando si ha davanti una persona condannata all’ergastolo e da undici anni in carcere. Chi pone le domande dovrebbe avere una conoscenza approfondita del caso altrimenti poi si fanno solo domande suggestive, inducendo l’intervistato a dire ciò che si vuole». Ci spiega l’avvocato che «Massimo non conosceva le domande in anticipo e quando mi ha chiesto se secondo lui avrebbe dovuto accettare di fare l’intervista gli ho detto di scegliere liberamente. Lui ha sempre avuto il desiderio di proclamarsi innocente. È un suo diritto. Mi ha detto: «Non ho nulla da temere, io dico la verità».

Però, purtroppo siamo in un mondo in cui l’estetica conta molto, conta come viene posta la questione. E un approccio voyeuristico ha accontentato un pubblico affamato, invece che presentare agli spettatori un approfondimento giudiziario». Certo, ammette Salvagni, «forse Massimo sarebbe dovuto essere più incisivo sulla questione del Dna, dicendo che i reperti sono stati distrutti». Su questo punto abbiamo chiesto a Salvagni quali strade ci sono ancora da percorrere in via giudiziaria: «Purtroppo non sarà possibile effettuare l’esame principe sulla traccia di Ignoto 1. Abbiamo presentato delle istanze per analizzare gli slip e i leggings».