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La recente sentenza sulla trattativa tra lo Stato e la mafia non ha avuto un adeguato commento dalla grande stampa eppure si tratta di una decisione della Cassazione eclatante e fondamentale per la storia civile, politica e umana del nostro Paese.
È una sentenza che non può soltanto essere pubblicata nel Massimario e dare lustro a magistrati che hanno dimostrato la loro serena indipendenza come prevista dall’art. 104 della Costituzione, ma deve avere conseguenze nella valutazione attenta da parte della cultura giuridica e del mondo giudiziario. Come è noto la Cassazione ha stabilito che il fatto “trattativa” non è stato commesso e non costituisce reato; e quando un “fatto” non è reato e non è stato compiuto il processo penale non ha consistenza.
Viene da dar ragione a chi si pone la domanda perché è stato intentato un processo lungo venti anni che ha costruito una storia che non esiste. La magistratura non può inquinare le vicende della storia con cronache non vere che incidono fortemente sul tessuto sociale e sulla convivenza dei cittadini.
Perché è iniziato questo processo e tanti altri che hanno avuto meno clamore e che hanno interessato leader politici come Nicola Mancino e Calogero Mannino, campioni assoluti più di tanti altri della legalità repubblicana, come tanti esponenti dell’amministrazione dello Stato, delle forze di polizia, della struttura intima dello Stato?! È una domanda che ogni cittadino si pone.
Al di là di sospetti particolari e specifici la risposta ingenua che possiamo dare è che una certa magistratura voleva essere protagonista nello scrivere la storia del nostro Paese, nel far diventare protagonista fuori misura l’antimafia nella sua dissennata esasperazione di ritenere che tutto il mondo è mafia e che la politica è inquietante deviando dai fondamentali canoni della ricerca della prova e della razionalità delle decisioni.
La sentenza dunque segna la fine della pretesa della magistratura essere protagonista nelle vicende sociali e politiche, capace di far trionfare il bene sul male e di esprimere un modello etico di riferimento completo e complessivo di tutta la società, come tutore della moralità. Questa fase è iniziata negli anni 90 con le indagini giudiziarie di Tangentopoli e con le indagini giudiziarie nei confronti di Andreotti, Mannino del giudice Carnevale che non dobbiamo dimenticare, che hanno portato a sentenze clamorose di assoluzione perché il fatto non è stato riscontrato, con valutazioni severe, contenute nelle sentenze che bisognerebbe ogni tanto rileggere, nei confronti dei pubblici ministeri.
In una di queste sentenze della Cassazione è stato scritto che le modalità di indagine giudiziaria utilizzate per quel processo debbono essere di monito per “come non si deve fare un processo”! Ho scritto varie volte che tutte le formule di condanna o di assoluzione restano coerenti nell’ambito del processo penale escluso quella del “fatto che non esiste” o del fatto che non è stato compiuto, che dà una responsabilità in più a chi ha iniziato l’azione penale e non si è reso conto che non c’era il “fatto” o che il fatto non era reato e non è stato compiuto.
Come non rendersi conto di questo?! Se si vuole riformare il ruolo del magistrato e adeguarlo ai tempi si deve ancor più esaltare la sua indipendenza che non si può non collegare a una responsabilità.
La indipendenza non determina irresponsabilità e una esasperata “autonomia” porta alla chiusura e alla “casta” incontrollata. L’autonomia, bisogna ormai riconoscerlo, è un istituto dell’aciern regime che i costituenti mutuarono perché dovevano prevedere una vera e propria separatezza della magistratura rispetto al governo e alle altre istituzioni segnare una forte discontinuità rispetto al regime fascista! Il costituzionalismo moderno non può non porsi questo problema, che riconosco è molto arduo e complesso, ma è un problema che ha bisogno di essere risolto.
La riforma della magistratura è soprattutto di natura costituzionale ed è la premessa per le altre riforme che sono state indicate dal ministro Nordio che portano alla distinzione istituzionale tra pm e giudice, a una composizione diversa del Csm, per evitare che vi sia la prevalenza del giudiziario sul Parlamento, sul governo e quindi sulla politica.
Si deve sviluppare un grande dibattito su queste questioni, perché la magistratura vuol conservare inopinatamente il suo anomalo potere, la sua funzione di supplenza e questo non è coerente con la nostra Costituzione.
Nell’ultimo numero della rivista Questione giustizia, organo ufficiale della corrente magistratura democratica, il direttore scrive: “In moltissimi casi della vita sociale ed economica – scrive Nello Rossi – è il giudiziario ad intervenire in esclusiva, o almeno in prima battuta, nella ricerca di soluzioni di problemi inediti talora incancreniti dalla paralisi e dall'inerzia della politica… e quindi c’è bisogno di una magistratura che assolva un incisivo ruolo di garanzia dei diritti individuali e della dignità delle persone… all'affermazione di diritti dolorosi come quelli relativi al fine vita; alle soluzioni offerte sul terreno dell'eguaglianza di genere; alla protezione di diritti umani fondamentali come nel caso dei migranti; alle azioni a tutela dei risparmiatori e delle finanze pubbliche in contesti finanziari sempre più complicati e vorticosi; agli interventi sulla condizione dei lavoratori marginali, come i rider o i lavoratori della logistica… il magistrato non può pensare di essere un semplice passacarte, un freddo tutore dell'ordinamento giudiziario, ma deve rivendicare il suo ruolo speciale nella società, anche a costo di allargare il perimetro delle proprie prerogative… La Costituzione non indica più una direttrice di marcia univoca nel cui solco il giudiziario possa identificare una sua funzione unitaria, storica…!” Questo scritto è in coerenza con quanto scritto nel lontano 1983 sulla stessa rivista che io ho ricordato molte volte in questi anni, dal pubblico ministero Gherardo Colombo.
“La mancanza di una profonda, incisiva e penetrante opposizione politica da parte degli apparati cui lo svolgimento di questa funzione spetta istituzionalmente e costituzionalmente, ha indotto come conseguenza un fenomeno che riguarda direttamente la magistratura. Il controllo giurisdizionale, tradizionalmente e istituzionalmente diretto alla composizione dei conflitti e all'accertamento di comportamenti devianti di singoli, si è via via trasformato per una molteplice serie di motivi, che hanno complessivamente portato al risultato di modificarne la natura...”
“È stata devoluta alla magistratura una serie di compiti che non sono suoi propri e che investono più la funzione politica che non quella giurisdizionale. In tema di terrorismo, ad esempio, tutto il complesso fenomeno, di chiarissima natura politica, è stato affrontato a livello giudiziario e risolto - per quanto si è potuto attraverso strumenti utilizzati dalla magistratura.
Quello del terrorismo è uno dei tanti settori nei quali si è verificata l'imposizione alla magistratura di un'attività di supplenza da parte di altri apparati dello Stato… non mancano altri campi, più o meno estesi e più o meno evidenti, in cui sono state scaricate sulla magistratura responsabilità che spetterebbero, in linea di principio, ad altri organi o settori dello Stato. Ciò ha portato necessariamente l'ordine giudiziario ad invadere, perché richiesto, sfere di intervento istituzionalmente riservate ad altri. È successo, inoltre, che gli spazi lasciati liberi dalla mancanza o dalla più o meno grave insufficienza della opposizione politica siano stati essi pure, ed essi pure necessariamente, occupati dall'intervento giudiziario”.
È molto significativo come vi sia una costante in parti della magistratura di costruire un protagonismo istituzionale fuori dal dettato della Costituzione, ed è incomprensibile questa ostinazione di costruire una magistratura – politica. So bene che la colpa è della politica ma è la classe dirigente non solo la politica che deve avere consapevolezza e allarmarsi. L’evoluzione del ruolo della funzione della magistratura non può avvenire in queste forme perché costituirebbe un vulnus per la democrazia.
La distinzione dei poteri non è superata perché dall’epoca di Montesquieu sono passati tanti anni, ma è l’anima dello stato di diritto, dell’equilibrio tra i poteri perché nessuno deve prevalere sull’altro e ogni potere deve essere fedele alle sue rigorose competenze.
La sentenza della Cassazione vogliamo sperare chiude questo lungo periodo di “supplenza”, ristabilisce la consistenza dei fatti e cancella una distorta e mendace cronaca di tutti questi anni per la quale abbiamo patito tutti e hanno patito i personaggi che hanno avuto un ruolo importante nel nostro Paese opposto a quello che le sciagurate iniziative giudiziarie hanno voluto indicare. È arrivato davvero il momento di correggere la storia distorta che le indagini di Tangentopoli e quelle contro la mafia hanno fittiziamente costruito, e ristabilire un rapporto virtuoso tra la società e le istituzioni, tra la società e la politica.