Un saggio del secolo scorso scrisse che la cosa più stupida per una persona è quella di meravigliarsi per essersi scoperti al mattino uguali a come ci si era coricati la notte precedente. È vero che – ad essere pignoli – nessuno si bagna nella stessa acqua, ma queste sottigliezze sono roba da filosofi. Eppure, dopo lo spoglio delle schede delle primarie del Pd, la vittoria di Elly Schlein ha sconvolto quasi tutte le previsioni della vigilia che davano per favorito Stefano Bonaccini, soprattutto dopo i risultati del voto degli iscritti. In verità, senza scomodare il senno di poi, non era difficile mettere in conto una possibile vittoria di Elly la rossa. Per tanti motivi.

Innanzi tutto per la significativa quota di suffragi ottenuti, in totale, dagli iscritti (a fronte del flop di Cuperlo e De Micheli); per la netta vittoria nelle grandi città; per quanto era accaduto in casi precedenti negli ultimi dieci anni. Schlein ha condotto una campagna per la de-renzizzazione del Pd (coinvolgendo in questa nuova attitudine persino Bonaccini, costretto al ripudio delle politiche del governo Renzi per poter restare in gara), ma la sua vicenda è molto simile a quella del giovane caudillo fiorentino. L’allora sindaco di Firenze era stato sonoramente sconfitto da Pierluigi Bersani nelle primarie del 2012 ( gli era anche capitato di essere allontanato da un corteo del Pd a causa di alcune dichiarazioni su Silvio Berlusconi che non erano piaciute).

Nel 2013, dopo quella che anche allora venne ritenuta una sconfitta elettorale, senza esserlo, Renzi aveva sbaragliato Cuperlo e Civati, raccogliendo il 67 per cento dei voti e suscitando momenti di entusiasmo nel Paese, persino tra gli avversari. Una luna di miele anticipata che gli permise di sfiduciare Enrico Letta, prendere il suo posto a Palazzo Chigi con l’appoggio di Napolitano e stravincere alle elezioni europee con una percentuale di voti senza precedenti. La spinta propulsiva gli veniva dalla giovane età e dai propositi di rottamazione di un gruppo dirigente che aveva portato il partito alla sconfitta (in verità, nelle elezioni politiche successive il partito non è più riuscito ad ottenere la quota di suffragi che raccolse sotto la guida di Bersani). Elly Schlein ha cavalcato l’onda di una crisi di nervi che ha colto il Pd dopo il voto del 25 settembre, a partire dal suo gruppo dirigente.

Fin dall’inizio i maggiorenti – a partire da Letta – hanno puntato su di lei; non si spiega altrimenti perché le sia stato possibile candidarsi alla segreteria di un partito a cui non aderiva (dovrebbero tener conto di questa anomalia originale del congresso coloro che lamentano il ribaltamento del voto degli iscritti). Il 25 settembre la coalizione a guida NON poteva vincere, perché era evidente che avrebbe perduto in quasi tutti i collegi uninominali, conto una destra elettoralmente unita che, alla fin dei conti, ha redistribuito i suoi voti tra i partiti della coalizione. Prima di ogni altra analisi sugli errori, i deviazionismi, le eresie, i tradimenti, lo smarrimento dell’identità, nei risultati delle urne è stato determinante, allora, un motivo squisitamente tecnico.

Il centrosinistra si è presentato in campo per giocare la “partita della vita” con una formazione da calcetto contro una squadra di 11 giocatori. Se questo è avvenuto è evidente che il gruppo dirigente ha pasticciato sul terreno delle alleanze. E di questo pasticcio - non di una sorta di peccato originale - era doveroso rispondere. Il Pd, invece, si è infilato in autodafé paranoico alla ricerca del tempo perduto. Si è presentato prima ai militanti e all’opinione pubblica, poi all’elettorato col capo cosparso di cenere, mettendo di propria iniziativa all’indice le politiche di cui è stato protagonista nell’ultimo decennio. Fino ad accusarsi di essere stato attratto dall’eresia “ordoliberista”, di aver abbandonato i lavoratori e i pensionati, ignorato il grido di dolore dei poveri. Ha iniziato la campagna elettorale all’insegna dell’agenda Draghi per abbandonarla strada facendo, proprio quando Giorgia Meloni aveva cominciato a muoversi in una linea di continuità, smentendo il lavoro compiuto in anni di opposizione. Per i dem, invece, l’autoflagellazione è diventata un rito comune a cui nessuno poteva sottrarsi. Anche Stefano Bonaccini si è adeguato a questa narrazione, è stato costretto ad indossare il cilicio e a prendere parte al processo di rigenerazione. Ma si vedeva da lontano che gli scappava da ridere e che era il primo a non prendersi sul serio. C’è da stupirsi allora che in un clima di palingenesi, di autoaccusa, di “sabba” al grido di “morte al jobs act”, abbia prevalso la giovane donna che quelle critiche - divenute in seguito il leitmotiv della competizione - le aveva anticipate al momento giusto e per prima? E ha continuato su questa linea di condotta con l’aura della profetessa dell’espiazione e del riscatto?