È passato mezzo secolo dal golpe di Augusto Pinochet e più di trentatré anni dal ritorno della democrazia, ma il Cile non sembra ancora pronto a voltare pagina. Il fallimento del referendum dello scorso anno che avrebbe dovuto archiviare per sempre la Costituzione dei golpisti ha riaperto le vecchie ferite e fotografato una società ancora profondamente divisa al suo interno, con un blocco politico e un elettorato più o meno “nostalgico” della dittatura con cui è necessario fare i conti.

Certo, quella marea di “no” alla nuova carta costituzionale non significa che il 60% dei cileni vorrebbe ritornare all’epoca dei generali, un parte della borghesia liberale ha votato contro il progetto perché ha messo al centro il diritti degli indigeni, ai quali avrebbero dovuto essere restituite le terre confiscate nel passato, mentre la chiesa cattolica era molto preoccupata per un testo che riconosceva il diritto delle donne ad abortire.

Tuttavia secondo un recente sondaggio oltre il 40% dei cileni esprime un giudizio positivo degli anni di Pinochet, quasi lo stesso numero di elettori ( 44%) che alle presidenziali del 2021 ha votato per il candidato di estrema destra José Antonio Kast, figlio di ex ufficiale nazista emigrato in Cile dopo la seconda guerra mondiale. Le sue argomentazioni a favore del colpo di mano dell’ 11 settembre 1973 appartengono alla stessa vulgata che puoi ascoltare ovunque in Cile: i militari avrebbero impedito la trasfor-mazione del Paese in una seconda Cuba e allo stesso tempo modernizzato il sistema economico. Domenica scorsa a Santiago nel corso della marcia in ricordo dei 3500 morti per mano della dittatura e dei 40mila desparecidos è stata attaccata da centinaia di uomini in passamontagna che hanno lanciato pietre contro i manifestanti, contro il palazzo presidenziale e vandalizzato un memoriale dedicato alle vittime.

Sembra quasi impossibile, per chi ha vivido il ricordo del pinochettismo, che la metà della popolazione possa averne nostalgia, che quel brutale e cruento rovesciamento della democrazia sostenuto indirettamente dall’America di Nixon possa ancora venire giustificato dalla retorica anti- comunista a dai riflessi condizionati della Guerra fredda. I motivi sono diversi e di non facile lettura: da una parte la lentezza della giustizia che per decenni ha lasciato impuniti i crimini dei militari, dall’altra una stragrande maggioranza di giovani ( l’ 80% del cileni è nato dopo il 1973) che non ha alcuna memoria di quella tragedia.

Sembra impossibile anche perché il golpe cileno ha avuto un significato potente che ha varcato i confini nazionali diventando l’emblema di un sogno infranto, quello del governo socialista di Salvador Allende, un modello per la sinistra che non si riconosceva nello stalinismo e nell’esperienza sovietica e per questo ancora più temuto dai suoi avversari perché ritenuto “contagioso”. Bisognava, stroncare, annientare quell’esperienza, dal punto di vista materile e simbolico, mostrare al mondo la determinazione e il pugno di ferro degli anti- comunisti, come era avvenuto in Grecia nel 1967, come accadde in Argentina nel 1976.

A differenza di altri sanguinosi colpi di Stato, i militari cileni non hanno nemmeno tentato di oscurare la brutalità della repressione, al contrario l’hanno esibita senza vergogna, esistono migliaia di immagini di quei giorni, in particolare dello stadio National improvvisato campo di concentramento per gli oppositori, immagini che fanno il giro del mondo. Quello cileno è stato il golpe più mediatizzato della Storia, a partire da quella foto pazzesca che ritrae il presidente Allende con un kalashnikov a tracolla protetto dalle guardie del corpo Miguel e Mauricio scattata pochi minuti prima della sua morte.