La politica italiana non brilla per la memoria. Dimenticare presto fa comodo. Eppure il trentesimo anniversario del referendum elettorale del 18 aprile 1993 merita l’ostinazione di ricordare.

Quel giorno la storia della Repubblica è cambiata e si è avviata una lunga transizione tutt’altro che risolta.

La storia cambiò perché venne certificato l’epilogo della lunga fase di una democrazia bloccata, incastrata nella tenaglia della guerra fredda.

Il 60 per cento degli elettori italiani impressero con il loro voto una svolta maggioritaria al sistema politico, consentendo, dopo la caduta del muro di Berlino, la possibilità di una democrazia compiuta, quella democrazia dell’alternanza, preconizzata da Aldo Moro e da Roberto Ruffilli, entrambi vittime del terrorismo brigatista. Purtroppo, allo stato, l’incompiutezza permane.

Ciò non toglie che il referendum del 1993 sia uno spartiacque. È stata l’unica riforma che abbia inciso significativamente sul sistema politico. Quel referendum è un atto d’accusa nei confronti di una politica inconcludente, che da decenni preannunzia riforme che non arrivano mai. Inoltre, l’ispirazione che ne fu alla base non strizzava l’occhio alle derive populiste della democrazia diretta, ma aveva come obiettivo di riqualificare la democrazia rappresentativa, proprio per evitare quelle derive.

La storia di quella vicenda dev’essere ancora completamente scritta, malgrado gli importanti contributi offerti dai suoi protagonisti a cominciare da Mario Segni che ne fu il leader indiscusso.

La cronaca invece fa spesso registrare giudizi liquidatori, così da far diventare quel referendum una sorta di capro espiatorio del nostro declino. Operazione tanto più facile perché non si ha prova del contrario. Di cosa sarebbe cioè successo se esso non ci fosse stato. Ma la storia non si fa con i se e con i ma e dunque vediamo rapidamente che cosa è successo.

Innanzitutto è successo che il movimento referendario con il suo irrompere fu in grado di scrollare la politica dalla palude dell’immobilismo e consentì che venissero approvate riforme come l’elezione diretta dei sindaci e, poi, quella dei presidenti di regione.

La legge elettorale, pur non completamente maggioritaria, consentì di riesumare i collegi uninominali esaltando il ruolo degli elettori nella legittimazione degli eletti. I parlamentari uninominali, persino quando “catapultati” da Roma, erano costretti a fare i conti con il proprio collegio, c’era la loro faccia per le strade delle città, dei paesi e dei quartieri. E questa responsabilità molti la sentivano. I cittadini sceglievano.

Ma legge elettorale non era una legge interamente maggioritaria perché il referendum che la introdusse subiva i vincoli tecnici di ogni referendum abrogativo. Rimase la quota proporzionale senza la quale il referendum non sarebbe mai stato dichiarato ammissibile.

Così, un inconveniente tecnico divenne il cavallo di Troia per sabotare gli effetti del cambiamento. Con la quota proporzionale i partiti si contavano e su quelle basi definivano i rapporti di forza nelle coalizioni, concedendosi ribaltoni e ribaltini.

La verità è che la legge elettorale da sola non basta a cambiare il corso delle cose. Sarebbe stato necessario che le forze politiche raccogliessero la domanda di cambiamento e accompagnassero il referendum con una riforma costituzionale che mettesse in sicurezza la svolta compiuta.

Il paradosso è che i cittadini risposero, ma la politica fece orecchie da mercante.

E così da allora continuano a farsi elezioni dopo le quali gli impegni elettorali vengono traditi, le alleanze continuamente modificate e l’avversario delle urne diviene il sodale del governo di turno. In nessuna grande democrazia sia assiste a una tale disinvoltura. E in nessuna grande democrazia i governi durano mediamente un anno e qualche mese, come accade in Italia dal 1861 a oggi. Che cosa si può realizzare in un anno e tre mesi?

Senza riforme che assicurino stabilità e governabilità l’effetto delle leggi elettorali si arresta alla sera delle elezioni.

Per questo la riforma costituzionale rimane il convitato di pietra della crisi italiana. E per questo c’è da augurarsi che le forze politiche, sia quelle che hanno vinto le elezioni, sia quelle che aspirano a farlo, non rimangano abbagliate dall’illusione di una stabilità, che, come già accaduto in passato, rimane esposta a rischi continui di dissoluzione.

La responsabilità dell’iniziativa spetta alla maggioranza che ha vinto le elezioni. All’opposizione spetta quella di non cadere nella tentazione di scommettere sull’ennesimo fallimento, magari agitando lo spettro di scenari autoritari, con una retorica che rischia di diventare il bene rifugio per nascondere una profonda crisi di identità.

È possibile che prevalga la rassegnata tentazione dello status quo. Ma, come avvenne nel 1993, nella storia arriva sempre il momento in cui accade l’imprevisto. Il cigno nero che non si era visto arrivare. E ci si ritrova travolti da eventi che si sarebbero potuti invece anticipare e guidare.

Ecco. L’ultima postilla. Il referendum del 1993 si fondò su una straordinaria convinzione: l’Italia non è figlia di un dio minore; si merita di più. E non c’è nessun motivo perché non lo possa avere.