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IMAGOECONOMICA
«Il limite all’esercizio del diritto di critica deve intendersi superato quando l’agente trascenda in attacchi personali diretti a colpire sul piano individuale la figura del soggetto criticato, senza alcuna finalità di pubblico interesse»: in questi termini si è espressa, anche da ultimo (sent. n. 27930/2023), la Cassazione in tema di diritto di critica.
In realtà, la decisione fissa il perimetro “massimo possibile” della critica “legittima”, nel senso che questa materia – ma il diritto dell’informazione, in generale – è contrassegnato da un’ineluttabile componente di variabilità concettuale connessa alla necessità che le corti svolgano, in concreto, il necessario bilanciamento tra la libertà di manifestazione del pensiero ed i diritti fondamentali della persona nei cui confronti tale libertà risulta esercitata. Anche se, in effetti, sin dal celebre “Decalogo” della Cassazione del 1984, è costante l’aspirazione a sottrarre la giurisprudenza in argomento all’eccessiva variabilità del “caso per caso”, esposta al rischio, in certi casi, di diventare vero e proprio arbitrio.
Dunque, il tema non è tanto quello dei presupposti scriminanti della corretta critica e della legittima informazione, più o meno chiari: continenza (o forma civile dell’esposizione), verità, quantomeno putativa, e, soprattutto, utilità o interesse sociale, ai quali, dal 1998, cioè dal primo Codice deontologico dei giornalisti, adottato in attuazione della disciplina di protezione dei dati personali, si è aggiunta l’”essenzialità” della notizia. Semmai vi è una seria questione di ineliminabile (ma non per questo, meno deprecabile) componente soggettiva della decisione, che qualcuno arriva a definire – ma sarei più cauto – vero e proprio “uso politico” della giurisprudenza in materia; una tale rappresentazione pare eccessiva, anche se è indiscutibile che sulla decisione del giudice possono pesare orientamenti ideologici, spesso neppure celati, tendenze soggettive, pregiudizi o condizionamenti di varia natura.
D’altro canto, se i numeri hanno un senso, c’è da chiedersi come sia possibile che in alcuni tribunali (si pensi a quello di Roma: cfr. ricerca di P. Sammarco e V. Zeno Zencovich in Dir. Inf. del 2021) la percentuale di rigetto delle azioni civili per risarcimento dei danni da diffamazione sia quasi al 75 per cento, con la sola eccezione quando ad agire siano magistrati che si ritengano lesi, allorché la percentuale di accoglimento sale al 71 per cento, mentre raggiunge addirittura il 100 per cento quando attori siano religiosi!
E chi si occupa professionalmente di questi argomenti sa bene che spesso si va alla ricerca, utilizzando le pieghe della procedura e facendo slalom tra i possibili fori alternativi, non di un giudice incline alle ragioni della vittima - ci mancherebbe - ma almeno non preventivamente schierato con la posizione di chi, nei panni del giornalista o, peggio ancora del critico, si sente investito da una missione “salvifica” della società, che tuttavia spesso si risolve in una vera e propria licence to kill.
Si prenda il caso di attualità della querelle tra Luciano Canfora e la premier Meloni: realmente si può invocare il diritto di critica con riguardo all’utilizzo dell’espressione “neonazista”? Più che dubbi, vi sono certezze, a mio avviso, sul superamento dei limiti di un corretto esercizio del diritto di critica! Il problema però non è soltanto tecnico; è una questione culturale.
Per la prima volta in questo periodo si sta mettendo in discussione il circolo vizioso tra “unti del Signore”, portatori di ipotetiche verità assolute, sistema dell’informazione (un capitolo a parte ma connesso è quello del cosiddetto “giornalismo di inchiesta”) ed una parte di magistratura “militante”. Al di là degli schieramenti – la logica non può essere di parte - non va smarrita l’occasione di rimettere al centro i diritti della persona e finalmente ribadire che, in un’ideale gerarchia, l’articolo 2 della Costituzione viene prima dell’articolo 21, e che quest’ultimo non può continuare ad essere maliziosamente avvolto da un’aura di sacralità a “senso unico”.