Corsi e ricorsi storici: il pendolo della Storia e l’eterno ritorno. Anno domini 1913, per la prima volta nel Regno d’Italia, l’art. 179 del codice di rito appena promulgato statuisce che il Procuratore del Re «Se reputi che per il fatto non si debba promuovere azione penale richiede il giudice istruttore di pronunciare decreto». Il generico controllo giudiziario sull’attività dei requirenti così introdotto fu sostanzialmente disapplicato, fino a quando, insediandoti il regime fascista (che dal 1923 ebbe il pieno controllo sulla magistratura), l’art. 74 del codice Rocco ( 1930) restaurò l’autogestione autoritaria dell’accusa risalente al codice del 1865.

Cestinino pure i pretori e i procuratori del Re la notizia criminis, fermo restando che il procuratore del Re e rispettivamente il procuratore Generale, previamente informati, hanno il potere di disporre che si proceda penalmente. Al postutto così, per tramite dei Requirenti, il Governo poteva esperire e coltivare l’azione penale pro amico o contra inimicum. Il seguito è storia vissuta: in piena guerra civile il decreto luogotenenziale n. 288 del 1944 si affretta a modificare l’art. 74 del codice Rocco; la Costituzione ( art. 112) obbliga il Pubblico Ministero ad esperire l’azione penale; il nuovo codice di rito disciplina la materia (artt.408 e 409 c. p. p.) con le modifiche introdotte dalla Riforma Cartabia.

Dopo poco meno di un secolo dall’approvazione del codice Rocco allarma il recente intervento del Ministro Nordio, mai smentito: «Nel processo accusatorio il Pubblico Ministero, che non è né deve essere soggetto al potere esecutivo ed è assolutamente indipendente, è il monopolista dell’azione penale e quindi razionalmente non può essere smentito da un giudice sulla base di elementi cui l’accusatore stesso non crede. Per questo è necessaria una riforma radicale che attui pienamente il sistema accusatorio». (La Stampa, 7 luglio 2023). Piace la ribadita autonomia e indipendenza del Pubblico Ministero, per altro almeno sulla carta pienamente garantita dagli artt. 101,104 e 107 Cost., da parte lasciando ( ma fino a quando?) il sistema clientelare- spartitorio confessato dal dott. Palamara, ma ancora non debellato. In ogni caso è blasfemo asserire che nel nostro ordinamento il Pubblico Ministero è il «monopolista dell’azione penale». Niente di più aberrante, se per ‘ monopolista’ si intenda l’operatore che, anziché adeguarsi alle regole del mercato, sia in grado di imporle. In realtà, come è a tutti noto, il Pubblico Ministero non ha, e non deve avere, alcuna signoria o potestà sull’azione penale, non è maître de son action» (padrone e signore della propria funzione), essendone piuttosto servo, in quanto obbligato ad esercitarla in conformità alla legge ( art. 3, 101 e 112 Cost.), proprio al fine d’impedire che la sanzione penale sia brandita pro amico o contra inimicum. Sono stati necessari diciotto anni ( dal 1930 al 1948), e due sanguinose guerre di liberazione, per abrogare sul punto il codice Rocco. Né in tema è possibile apprezzare la coerenza giuridica del Ministro Nordio. Il quale invero, nell’ordine, ha scritto che «Esso [“il vituperato codice Rocco”] tanto fascista non era, visto che rimase in piedi per quarant’anni dopo la promulgazione della Carta nata “dalla resistenza”» (Giustizia ultimo atto, 2022, cap. V); ha poi dichiarato «Riuscirò a riformare il codice di Mussolini» (La Repubblica, 5 novembre 2022); ha infine sostenuto il 7 luglio scorso che la decisione del Pubblico Ministero sull’esperimento dell’azione penale non può – e non deve - essere sindacata dal giudice, impegnandosi nella propria veste di Ministro a riformare in tale direzione l’attuale codice di rito penale.

A beneficio dell’attento lettore, si impongono due precisazioni ulteriori.

La prima riguarda la grammatica e il galateo istituzionale, e cioè i rapporti tra il l Governo e l’Ordine giudiziario. La riferita esternazione del Ministro non è casualmente avvenuta in un pubblico dibattito giuridico sull’archiviazione o sull’obbligatorietà dell’azione penale, ma con dichiarato riferimento alla vicenda giudiziaria che ha coinvolto il suo sottosegretario onorevole avvocato Delmastro, indagato per rivelazione di segreto d’ufficio. La Procura della Repubblica capitolina, accertato che l’indagato aveva rivelato un segreto d’ufficio, aveva chiesto l’archiviazione per difetto dell’elemento soggettivo, potendosi dubitare plausibilmente che l’indagato ne conoscesse la giuridica segretezza. Il Gip. ha invece disposto l’imputazione cd. coatta, ritenendo evidentemente che, esauriente essendo l’indagine svolta, gli elementi acquisiti «consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna» (art. 408, 1° c. p. p.). Non è la prima volta che il dott. N. si erge pubblicamente a difesa del suo Sottosegretario. Lo aveva già fatto davanti al Parlamento. Ove, addirittura arditamente rivendicando che soltanto al suo Dicastero competeva il diritto di stabilire se fossero segreti gli atti divulgati dall’indagato onorevole Delmastro, escluse che le notizie esternate dal suo sottosegretario fossero segrete: circostanza ora smentita dalla Procura competente nel momento in cui ha chiesto l’archiviazione soltanto per difetto dell’elemento soggettivo. La mirata reiterazione non esclude, ma aggrava, l’invasione di campo.

La seconda precisazione è di ordine tecnico- giuridico. Se la Procura agente potesse archiviare a proprio arbitrio, essa sarebbe libera di agire penalmente pro amico o contra inimicum, come aveva statuito il Ministro Rocco. Invece, alla stregua della Costituzione e del nuovo codice di rito, l’inazione del Pubblico Ministero è legittima soltanto se approvata dal giudice. Il quale, nella specie, ha motivatamente ritenuto che fosse ragionevolmente prevedibile la condanna in giudizio di un avvocato penalista, nonché sottosegretario alla Giustizia (con specifica delega alla trattazione degli affari di competenza del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria), come l’onorevole Delmastro, non potendo egli plausibilmente ignorare la segretezza delle notizie propalate in una fattispecie paradigmatica, in cui di per sé lo specifico trattamento carcerario (ex art. 41 bis) presuppone ed impone il più rigoroso isolamento tra i detenuti e l’ambiente esterno.

Perché a suo avviso, signor Ministro, la valutazione della Procura (tenuta ad esercitare l’azione penale) dovrebbe prevalere su quella del giudice (che ha proprio il dovere di accertare la legittimità dell’archiviazione e di rispettare la legge)? È altrettanto noto che, rigettata l’istanza d’inazione, proprio in ossequio al rispetto della separazione delle funzioni e del modello accusatorio, secondo cui il giudice non può procedere d’ufficio, egli non può imporre, e non impone, alla Procura di chiedere il rinvio a giudizio, lasciandola libera di scegliere l’imputazione più conforme a legge (si rinvia sul punto alla sent. delle Sezioni Unite n. 4319 del 2013).

E per finire, Signor Ministro, in quale direzione vuole proporre la sua riforma delle anzidette disposizioni?

GIÀ SOSTITUTO PROCURATORE GENERALE PRESSO LA SUPREMA CORTE