È la nostra bevanda nazionale, un po’ come la Coca cola per gli americani e il sakè per i giapponesi, bibita di disarmante semplicità che allieta i tramonti, seduce i turisti e piace ai ministri. Nato quasi per caso dal ruvido ingegno austro-ungarico è diventato il long drink italiano più noto e consumato al mondo grazie a qualche geniaccio del marketing che è riuscito a trasformare un modesto intruglio in un fenomeno planetario: da Parigi a Milano, da Londra a New York sua maestà lo spritz troneggia sui tavolini dei bar di mezzo mondo, bevuto avidamente dai 15 ai 70 anni.

Il suo misterioso successo fa arricciare il naso ai puristi, (ultimo Camillo Langone sul Foglio), i quali da anni scagliano anatemi contro il popolino dai grossolani gusti, consumatore seriale del «beverone arancione», contrapponendo al dozzinale carisma dello spritz le delizie del Barolo, del Brunello, dell’Amarone, dei Franciacorta e via discorrendo con tutta la raccapricciante retorica delle “eccellenze” italiche in un confronto puerile e insensato, come se si potessero paragonare Verdi e Rossini a Jovanotti e Annalisa, Raffaello e Michelangelo a Vauro e Zerocalcare.

Lo spritz, con i suoi colori sgargianti e “instagrammabili”, il suo basso contenuto alcolico e la nota amara del bitter oggi popolarissima tra i giovani è anche il più “social” dei drink, in rete, dove viene immortalato nelle sue mille varianti e nella vita vera, compagno fedele non più di sbronze all’ultimo sangue, ma di moderate euforie, di conviviali incontri con amici, colleghi, amanti. «Ci vediamo per un spritz» vuol dire «stiamo un po’ insieme» mica è un invito a un concorso enologico. E dunque pazienza se il suo sapore non ti porta nel paradiso dei bevitori, se manca di struttura, di punch, di personalità, quasi di tutto: come ci hanno insegnato gli antichi in fin dei conti sui gusti e sui colori è inutile discutere. Figuriamoci fare la lezione.