Impiccatelo al ramo più alto. Farebbero più in fretta a dire così, stile far west, sarebbero più chiari e meno ipocriti, gli esponenti di vari partiti e qualche giornalista che hanno da tempo inventato la formula «per opportunità politica» con la quale chiedono le dimissioni di membri di governo raggiunti da provvedimenti giudiziari. Giù la maschera!

Non esistono le ragioni di opportunità, evocate da ultimo dall’ex premier Giuseppe Conte, piuttosto che l’«onore» invocato dalla responsabile giustizia del Pd Debora Serracchiani. Inutile tergiversare, tutti si affannano a negarlo, ma il punto di partenza è sempre l’inchiesta giudiziaria.

Il che conferma il fatto che, da oltre trent’anni, le scelte politiche e persino la configurazione dello stesso Parlamento vengono decise fuori dal palazzo, e cioè in un altro palazzo, la cittadella delle toghe. Del resto basta esaminare l’elenchino delle persone citate da Giuseppe Conte nella lettera di natale inviata tramite Repubblica alla presidente Giorgia Meloni. Sono distinte in due gruppi. Nel primo ci sono quelli che godono dell’attenzione di qualche magistrato e di cui, quindi, si chiede l’allontanamento dal governo. Per «opportunità politica», ovviamente.

Il sottosegretario alla giustizia Andrea Del Mastro rinviato a giudizio per la vicenda delle notizie sulla visita dei parlamentari del Pd all’anarchico Cospito. Notizie utilizzate poi dal deputato Donzelli in un intervento nell’aula di Montecitorio, di cui non è del tutto chiaro se e in quale misura fossero riservate. Tanto che lo stesso Marco Travaglio, difensore di fiducia di Conte, sul Fatto di ieri, dice che l’ex premier ha torto, perché «il livello di segretezza del documento passato a Donzelli è ancora controverso e comunque era già noto alla stampa». Se lo dice lui, sempre così bene informato e agganciato alle toghe, possiamo immaginare già la fine della storia sul piano giudiziario.

Poi c’è tutta la vicenda della ministra Daniela Santanché, inquisita per le sue attività imprenditoriali che nulla hanno a che vedere con i suoi comportamenti al governo. E infine il sottosegretario Vittorio Sgarbi, chiamato in causa per alcune consulenze retribuite. Il secondo gruppo è occupato sostanzialmente dal ministro Lollobrigida, la cui reputazione è stata sporcata da quel gesto sul Frecciarossa e la sosta forzata in una stazione non prevista. Un caso increscioso, che «non ha giovato all’immagine dell’istituzione di governo», scrive l’ex presidente Conte, senza però chiederne le dimissioni. E certo, l’inchiesta giudiziaria non c’è.

Stesso leggero rimprovero per il sottosegretario Durigon, oggetto di attenzione da parte di inchieste giornalistiche, ma non della magistratura. Anche lui può restare al suo posto. E tutto sommato anche Maurizio Gasparri, soprattutto perché non è membro di governo e ormai, dopo lo scambio di ruolo con Licia Ronzulli, neppure vicepresidente del Senato. Restano nella rete, nel far west sarebbero già candidati all’impiccagione al ramo più alto, i tre soggetti con procedimenti giudiziari. E la domanda è inevitabile: i virtuosi esponenti del Movimento cinque stelle e del Pd avrebbero sentito la necessità di appellarsi all’onore e all’opportunità di dimissioni senza lo stimolo dell’autorità giudiziaria? Insomma, chi decide se un certo personaggio è più o meno degno di ricoprire il ruolo di governo, la politica o il pubblico ministero?

Su un argomento Conte ha ragione, nelle sue richieste da uomo del far west non è solo. Innanzi tutto perché, già da molto prima che il furore giustizialista grillino invadesse il Parlamento, gli antenati dell’odierno Pd si erano esibiti, negli anni d’oro dei loro salvatori di Mani Pulite, alla cieca obbedienza nei confronti delle toghe, a volte persino sacrificando qualcuno del loro stesso partito. Senza discriminare tra colpevoli e non. E ha ancora ragione perché anche esponenti di qualche partito oggi al governo, e la stessa premier Giorgia Meloni dall’opposizione, si sono comportati alla stessa maniera.

Dobbiamo anche in questo caso come già altre volte su questi argomenti fare un’eccezione per il diverso comportamento di Silvio Berlusconi e di qualche singolo parlamentare anche di altri partiti al di là di Forza Italia. Ma purtroppo dobbiamo una volta di più constatare che la debolezza della politica nei confronti delle diverse caste di cui quella delle toghe è indubbiamente la più forte, è una continua e costante delega ad altri a decidere al posto suo. Chissà se alla prossima scadenza elettorale le liste dei candidati non verranno preparate direttamente in procura. Qualcuno ci ha già provato, con le liste degli “impresentabili” alla Commissione Antimafia. Manca solo l’impiccagione al ramo più alto.