Sono quasi certo che sorriderebbe divertito, non mancherebbe qualche suo commento ironico e beffardo, se potesse vedere quello che accade. Peraltro non escludo che accada: da quando l’ho conosciuto, nell’ormai lontano 1972, e fino a quando ha esalato il suo ultimo respiro il 19 maggio del 2016 ( perbacco, già sette anni…), Marco Pannella l’ho visto fare, proporre, perseguire le cose più “impossibili”.

Com’era quello slogan del ’ 68 parigino: “Siate ragionevoli, chiedete l’impossibile”. Ecco: lui da questo punto di vista era ragionevolissimo. Non per un caso amava citare un poeta a lui caro, Arthur Rimbaud, in particolare un verso che traduceva in “Il ragionevole sregolamento di tutti i sensi”: un manifesto politico, quel suo “sregolare” un invito perentorio a rendersi irriconoscibili ( Ah! L’appello- esortazione finale di Pier Paolo Pasolini); accendere e riconquistare nuove, rinnovate, inesplorate “immaginazioni”, in un continuo rilanciare, manifestare, ampliare, difendere con l’attacco.

Sorriderebbe divertito e beffardo, dicevo, nell’assistere non tanto alla pretesa realizzazione di una profezia del filosofo cattolico- conservatore Augusto Del Noce: quella ( quanto abusata e distorta!) del PCI votato alla rovina per il suo trasformarsi in Partito Radicale di Massa. Il Partito Democratico, erede del PCI, ne deve ancora mangiare di cicoria, prima di poter ambire d’essere l’evocato Partito Radicale; per ora, con certosina pazienza e perizia si dedica all’operazione inversa: le masse le lascia per strada.

No: quello che procura divertimento e una punta di incredulità è il fatto che oggi tutti, pochissimi gli esclusi, riconoscono i meriti politici, umani, civili, perfino sociali, del leader radicale. Ma come? Si potrebbe compilare una corposa enciclopedia con gli insulti, gli epiteti, le volgarità che gli si sono scagliate in vita. E ora? Parce sepulto? Lui, intervistato una volta da Francesco Merlo con disincanto, se ne uscì dicendo: “Ti trattano, da vivo, come fossi morto. E sono pronti, da morto a trattarmi da vivo”. Si riferiva ai comunisti, ma è regola generale. Ogni volta che poi lo ripeteva, obiettavo: “Ma no, da vivo ti trattano da morto; da morto ti seppelliranno meglio”. Forse aveva ragione lui, anche se resto della mia. Confortato proprio dal fatto che oggi tutti, pochi esclusi, ne tessono lodi, ne riconoscono meriti. Di più: dicono di richiamarsi al suo insegnamento. Lo citano. Sostengono che occorre fare quello che lui sosteneva si dovesse fare ( salvo poi operare il contrario). Anche il termine “radicale”: un tempo equivaleva a marchio d’infamia, una stimmate che ti veniva rimproverata, ti escludeva dalle vere o presunte stanze del potere.

Se NON volevi fare carriera bastava dire che si era radicali. Il “per/ dono” arrivava a patto di scandire che eri “ex”, un errore di gioventù. In quel caso i salotti si aprivano, diventavi membro del club.

Ora radicale è medaglia da esibire, titolo di merito. Si scoprono radicali ovunque, e chiunque, da sempre.

Una gran bella cosa: davvero positivo che finalmente quelle lotte, quelle battaglie, quell’impegno fino a poco fa patrimonio di una pattuglia di “pazzi malinconici” ( rubo da Gaetano Salvemini) e disadattati, non sia più cosa scandalosa, sia entrato nel “sentire” “normale” e di tanti, se non proprio di tutti. Pesa, alla fine, la condizione così ben descritta da William Shakeaspeare nell’Enrico V: “We few, we happy few, we band of brothers” (“Noi pochi, noi pochi felici, noi banda di fratelli”).

Dunque, bello trovare tanti che raccontano e spiegano la storia che pure hai vissuto, e se non ricordi di averli mai trovati al tuo fianco non c’è dubbio: sei tu distratto; ti spiegano il significato autentico e vero di certe questioni, non si finisce mai di apprendere; e perfino l’essenza dell’essere radicale ti viene chiarita… Tutti radicali, tutti pannelliani, tutti a cantarne lodi e virtù; in prima fila schierati quelli che quando Marco era vivo lo consideravano alla stregua del nonno andato di testa, rincitrullito; quelli che alle riunioni non riconoscevano la validità delle sue proposte e delle sue iniziative, non avevano remora a sostenere che era in clamoroso errore, che altro e diversamente, si doveva e poteva fare; e coerenti altro, diversamente, facevano. Ora sembrano loro i più ligi ed “osservanti”.

Tutto molto bello e confortante. Non fosse che due fondamentali “regole” pannelliane continuano sistematicamente, pervicacemente a ignorarle, a disattenderle. Pannella aveva fatto suo quel motto inglese secondo il quale ogni attestazione di solidarietà vale solo se accompagnata da almeno un penny; per lui il “penny” si chiamava iscrizione al Partito Radicale. Già: perché per Pannella “radicale” non era un aggettivo, era un sostantivo. Il radicale sostantivo era quello che “saliva”, iscrivendosi, sull’autobus radicale.

Nessuno gli chiedeva mai da dove veniva, cosa aveva fatto, e con chi; nessuno poteva respingerlo, o cacciarlo via. “Saliva”, pagava il biglietto, faceva il tratto di strada che riteneva di dover percorrere, “scendeva” quando voleva, se voleva. Epperò per chiamarsi “radicale” quel biglietto lo si doveva pagare: era ed è l’unica regola, altre non ce ne sono.

Dunque, dei tanti, dei molti che oggi si fregiano del titolo di “radicali”, tributano il giusto omaggio a Pannella, ne riconoscono meriti e virtù e dicono di voler proseguire le sue lotte, quanti hanno pagato il “biglietto”?

Pochissimi. “Abusivi”, dunque, secondo la “regola” dell’osannato Pannella.

Ecco che si torna al “We few, we happy few, we band of brothers…”.