Monadi senza porte né finestre o soggetti “sociali”? Sarà perché uno ha quarant’anni e gli altri due il doppio ciascuno, ma il confronto a distanza tra il pubblico ministero Alessandro Riello da una parte, e gli ex magistrati Giancarlo Caselli e Livio Pepino dall’altra, segna un solco profondo di visioni diverse sul ruolo del magistrato. Punto di partenza è ancora il comportamento della giudice di Catania, Iolanda Apostolico. La quale, nella sua veste di magistrato, ha ripetutamente disapplicato il “decreto Cutro” del governo, non convalidando la permanenza di alcuni migranti tunisini nei Cpr. Ma che anche, come risulta da un vecchio filmato, ha partecipato, in veste di cittadina, a una manifestazione nel 2018 contro il governo per i provvedimenti che riguardavano la nave Diciotti e l’immigrazione.

La vecchia guardia di Magistratura Democratica si è mossa in massa. Addirittura con la sottoscrizione di un appello, in difesa della giudice catanese, promosso dal professor Luigi Ferrajoli, che aveva per breve tempo indossato la toga e aveva in seguito “fiancheggiato” il gruppo più garantista della corrente di sinistra della magistratura. Garantista e fortemente ideologicizzato, allora come oggi, nel testo dell’appello. Speculari le immediate adesioni di due ex magistrati che ebbero, con ruoli diversi, grande peso nella storia di Magistratura Democratica: Giancarlo Caselli, procuratore a Torino e Palermo, che ne ha scritto ieri sulla Stampa, e Livio Pepino, presidente della corrente sindacale delle toghe, in una lettera sull’Unità di due giorni fa. Un mondo che c’era e chissà se c’è ancora. Perché la prima cosa che colpisce, leggendo l’intervento di Alessandro Riello, pm della Dda di Catanzaro, è un altro mondo generazionale. Un giovane magistrato che lavora in un territorio difficile come la Calabria e al fianco fino a ieri di un procuratore come Gratteri, molto discutibile sul piano delle scelte giudiziarie ma sicuramente lontano dalle ideologie, che sa bene quanto siano importanti i comportamenti di ogni giorno. Perché devi stare sempre attento a chi ti trovi di fianco, anche a costo di sacrifici e isolamento. Monade senza porte né finestre.

Tutte le parti in commedia citano la Costituzione, chi per valorizzare la parte in cui difende l’indipendenza del giudice, chi per privilegiare quella sull’imparzialità. Due valori fondamentali, che non dovrebbero mai marciare disgiunti. Ma c’è un terzo elemento, ed è quello in discussione, la permeabiltà. Caselli e Pepino compiono indubbie forzature, ricordando che gli esseri umani si distinguono tra donne e uomini, bianchi o neri, atei o credenti. Distinzioni che li rendono diversi l’uno dall’altro e che potrebbero, per paradosso, alterare il loro giudizio quando indossano la toga. Dimenticano, i due illustri ex magistrati, che qui stiamo parlando di comportamenti, non di modi di essere o di scelte culturali.

Inutile girarci intorno: se per scelta ideologica partecipo non, come dice il dottor Caselli, a un convegno contro il terrorismo o la mafia, ma a manifestazioni antigovernative, sul tema dell’immigrazione o di altro, posso poi giudicare sulle stesse vicende senza indurre il sospetto di una mia scarsa serenità o presa di distanza dalle mie convinzioni politiche? Sull’Unità il direttore Piero Sansonetti, in dissenso da Livio Pepino, prova a rovesciare le parti, immaginando un giudice che ha partecipato a manifestazioni di estrema destra e poi deve giudicare il comportamento degli occupanti di un centro sociale. Vi piacerebbe, sfida i magistrati di sinistra. Sareste tranquilli sull’imparzialità di quel giudice?

Ma il pm Riello pare lontano anche da questo tipo di considerazioni politiche. La sentenza della Corte Costituzionale (n.224/2009) che lui pone a capo di tutto il suo ragionamento, nel collocare il “comportamento” a pieno titolo al fianco dell’indipendenza e dell’imparzialità del magistrato, disegna la carta d’identità di chi indossa la toga. Con qualche dovere in più, e anche qualche sacrificio in più. Non si spinge però, il pm calabrese, fino a quel terreno inevitabile del contrappeso, che gli è estraneo proprio perché un magistrato non lo ammetterebbe mai. Ci pensa però Sansonetti, in buona compagnia con Luca Ricolfi, sul Messaggero. Quel dovere in più, quel sacrificio a non partecipare anche alla manifestazione più gradita, sono dovuti da parte di chi gestisce un così grande potere, come quello di privare gli altri del loro bene maggiore, la libertà. Come possiamo avere fiducia nella magistratura, scrive Ricolfi, se abbiamo l’impressione che l’assoluzione o la condanna dipendano da “che giudice ti capita”?

Il giudicare, oltre che il privare un cittadino della libertà personale, è esercizio di grande potere. Se ne faccia una ragione anche la dottoressa Apostolico, e ascolti le parole del suo giovane collega Riello, lasciando da parte le ideologie che fanno parte di altre storie del passato. Lasci perdere le manifestazioni e il suo giudicare sarà più forte. Chi gestisce, per diritto, così tanto potere, deve per forza di cose pagare un prezzo con doveri speciali, quanto meno quello dell’autocontrollo nelle esternazioni delle proprie opinioni. Un pezzetto di libertà in meno, in cambio del potere di toglierne così tanta agli altri.