Quando arrestarono Enzo Tortora ero molto giovane. Avevo sedici anni e ancora pensavo che «male non fare, paura non avere». Non avevo simpatia per Tortora. Era il presentatore, dai modi affettati, di una trasmissione noiosa che mia madre vedeva tutti i venerdì in televisione. Lo spettacolo dell’arresto, portato via in manette da casa sua, non mi suscitò alcuna indignazione. Era uno spacciatore, così dicevano. Della vicenda si parlava sui giornali, ma non con i miei amici, allora interessati più alla Roma neocampione d’Italia che a vicende giudiziarie che non immaginavamo, neanche lontanamente, ci riguardassero. Ricordo però, verso metà di quella estate, le fotografie pubblicate su un rotocalco che sfogliai in spiaggia: ritraevano quell’uomo camminare nel cortile del carcere di Monza insieme ad altri detenuti, con i capelli tagliati a zero, la camicia in mano e lo sguardo perso in un incubo dal quale sapeva non si sarebbe mai risvegliato. Qualche fotografo si era arrampicato chissà dove per rubare quegli scatti, che già all’epoca, prima che prendessi coscienza di me e di quello che mi accadeva intorno, mi sembrarono una violenza accanita e ingiustificabile. Ma non fu abbastanza per appassionarmi alla vicenda, tanto che rimasi sorpreso quando Tortora fu eletto al Parlamento europeo con i Radicali. Per guadagnare due lire, facevo lo scrutatore al seggio volante dell’ospedale Fatebenefratelli, all’isola Tiberina, a Roma. Raccoglievo i voti delle persone ricoverate e, aiutandole nelle operazioni, spesso riuscivo a vedere per chi votavano. Rimasi stupito dell’enorme quantità di preferenze che ottenne Enzo Tortora, anche dalle suore dell’ospedale che, per eleggere lui, non si facevano “scrupolo” di votare per i Radicali abortisti. Pensai al potere della televisione. C’era molto di più, ma non volli capirlo, distratto dall’abbraccio di una giovane rappresentante di lista del Partito Comunista, che mi stringeva gridandomi «ce l’abbiamo fatta, ce l’abbiamo fatta». Era l’estate del 1984, quella della morte di Enrico Berlinguer e dell’effimero sorpasso del Pci.

Passarono gli anni, abbastanza casualmente mi iscrissi a giurisprudenza, della vicenda Tortora non mi interessai più. Ricordo solamente il pianto dell’avvocato Della Valle alla lettura del verdetto di assoluzione della Corte di Appello di Napoli. Razionalmente mi diede fastidio: un professionista che piange, quasi consolato dal suo cliente. Inconsciamente scavò qualcosa nel profondo e mi piace pensare che, se oggi faccio l’avvocato, è anche per la passione che quel pianto manifestava nella sua spudorata reazione all’ingiustizia vissuta quasi come ne fosse lui la vittima. Due anni dopo Tortora morì, ma la notizia non mi diede alcuna particolare emozione, oltre quella dei versi di John Donne che Hemingway cita nel titolo del suo romanzo.

Quasi venti anni dopo fui coinvolto nella scrittura del film che la Rai voleva realizzare sulla strage di Piazza Fontana. Il nostro punto di vista (mio e dei colleghi di sceneggiatura, intendo) fu quello delle vittime che morirono la notte del 12 dicembre 69 e dopo: l’anarchico Pinelli e il commissario Calabresi. Approcciai il lavoro con la mentalità dell’avvocato: lessi tutte le carte. E tra le pieghe di quella vicenda ritrovai nuovamente Enzo Tortora.

Studiando, come spesso capita, mi accorsi di quanto le mie opinioni, fino ad allora, fossero dettate da ignoranza e pregiudizi. Calabresi non era nella stanza da cui Pinelli precipitò, morendo sul selciato del cortile della questura di Milano. Era andato al piano superiore, dal suo capo Antonino Allegra, per dirgli che l’anarchico non aveva confessato e che lui lo credeva innocente. Avrebbe vissuto, nei pochi anni che gli rimasero, con il rimorso di averlo interrogato nonostante fosse scaduto il termine massimo del fermo di polizia e di avergli fatto credere che Valpreda avesse parlato, chiamandolo in correità. «Allora tutto è finito», rispose sconfitto e stremato l’innocente Pinelli. Immagino che quelle parole siano rimaste scolpite nella testa del commissario che con il ferroviere anarchico si scambiava libri. L’anno prima Calabresi gli aveva regalato Mille Milioni di uomini e Pinelli aveva ricambiato con l’ Antologia dello Spoon River («È come la gente vede il furto della mela che fa il ragazzo ladro»). Dopo la morte di Pinelli, su Calabresi si scatenò l’inferno: colpevole al di là di ogni inesistente prova. Il commissario fu lasciato solo, soprattutto dalla Questura e dal ministero dell’Interno o, forse, sarebbe meglio dire dall’Ufficio degli Affari Riservati. Mentre oltre settecento intellettuali sottoscrivevano un appello, da cui solo in pochi avrebbero avuto l’onestà intellettuale di dissociarsi molti anni più tardi, una persona gli rimase amica: Enzo Tortora. All’epoca scriveva per Il Giorno e per La Nazione. Era stato allontanato dalla Rai, perché aveva denunciato la lottizzazione politica dell’Azienda. Capiva quanto il linciaggio, subito da Calabresi, fosse ingiusto ed ebbe il coraggio di scriverlo. Quella scoperta mi fece finalmente interessare alla storia giudiziaria di Tortora. Non posso dire di aver cambiato opinione, ma di essermi fatto, con colpevole ritardo, un’idea. Un’idea, oggi, largamente condivisa: Enzo Tortora era una persona intellettualmente libera e onesta. Due qualità, quasi scomparse nella vita pubblica italiana degli ultimi trent’anni. Quella libertà che ti fa stare vicino al commissario Calabresi, quando il mondo gli volta le spalle; quell’onestà che ti fa dire, ai giudici della Corte di appello che stanno per decidere se confermare una condanna di dieci anni emessa in primo grado, «io sono innocente, dal profondo del cuore spero lo siate anche voi».

A rifletterci bene, anche questo breve racconto è una piccola Antologia dello Spoon River: Pinelli, Calabresi, Berlinguer, Tortora, vittime innocenti del loro quotidiano impegno perché, «se la gente vede che sai suonare, be', ti tocca suonare, per tutta la vita» per quanto sia faticoso e inane lo sforzo. In un Paese, che ha dimenticato il significato della loro testimonianza, gli anni, che sono seguiti all’ultima di quelle morti, sono stati un ondeggiamento continuo tra criminalizzazioni giudiziarie e agiografie imbarazzanti, tra pericolosissimi tentativi di moralizzazione della vita pubblica e spudorate, orgogliose ostentazioni di diffusa immoralità. Senza essere capaci di una vera riflessione sulla nostra storia con la quale ci ostiniamo a non fare i conti. Eppure è tutto lì, già scritto. L’avessi capito prima, l’avessimo capito prima.