«Non ci sarà più Forza Italia. Muore con Silvio». La previsione di Gianfranco Miccichè - ministro, vice ministro e più volte sottosegretario nei tre governi Berlusconi - a poche ore dalla scomparsa del Cavaliere può sembrare amara e fuori luogo nel momento del cordoglio. Ma è sincera e verosimile. «È un fatto scontato», dice lo storico esponente azzurro. «Il nostro non è un partito da congresso per sapere chi prende la direzione del partito. Assisteremo alla lite su chi è proprietario del simbolo, a chi non lo è», aggiunge Miccichè.

Sì, perché Forza Italia non può esistere senza il suo leader, il suo inventore, il suo padrone. Silvio Berlusconi è sempre stato allergico alla condivisione del potere all’interno della sua creatura e alla formazione di una classe decidente capace di camminare su gambe autonome. Anche quando ha allevato delfini, fino a designarli segretari di partito (del Pdl in questo caso), come con Angelino Alfano, ha sempre finito per trasformarli in trote per assenza di «quid». Già il «quid», quello che in Forza Italia, e forse in generale tra la classe politica, solo Berlusconi riusciva a sfoggiare. Così, negli anni, la lista dei possibili eredi alla guida del partito si è allungata alla stessa velocità con cui venivano stracciati i nomi che la componevano. Dal già citato Alfano a Giovanni Toti, passando per Mara Carfagna e svariate meteore. Fino ad arrivare ad Antonio Tajani - attuale coordinatore unico di Fi dal curriculum politico importante ma dal carisma poco dirompente - su cui in pochi sembrano pronti a scommettere per il futuro. Così come appare improbabile che a raccogliere lo scettro del comando possa essere l’onorevole Marta Fascina, ultima compagna di Berlusconi, che in pochi mesi è stata in grado di acquisire pezzi di potere azzurro e di mettere all’angolo esponenti di spicco di quello che fu il cerchio magico di Silvio. Del resto, prima di lei, era già successo a Francesca Pascale, ex fidanzata del Cav, di venire descritta come suggeritrice di svolte, sussurratrice di alleanze e dettatrice di prese di posizione.

La verità è che Berlusconi ha sempre deciso da solo, capace come pochi di annusare in anticipo l’orientamento degli italiani e i cambiamenti verso i quali andava il Paese. Forza Italia non può avere eredi, il berlusconismo però sì. E sono tanti a contendersi, soprattutto fuori dal partito, quel patrimonio rimasto adesso incustodito.

Il più interessato, dai tempi del patto del Nazareno, è senza dubbio Matteo Renzi, il primo a commentare ieri sui social la scomparsa dell’uomo che più di ogni altro ha segnato gli ultimi 30 anni di vita politica del Paese. «In queste ore porto con me i ricordi dei nostri incontri, dei tanti consigli, dei nostri accordi, dei nostri scontri», ha scritto su Facebook il leader di Italia viva. «Ma soprattutto di una telefonata in cui Silvio, non il Presidente, mi ha fatto scendere una lacrima parlando della mamma. Ci mancherai Pres, che la terra ti sia lieve». Non è un mistero che tra i due ci fosse del feeling naturale. Probabilmente un sentimento di reciproca simpatia figlio di uno stile comune - spregiudicato, populista e coraggioso - e di una visione pragmatica della politica, quella che permise a Berlusconi di varcare per la prima volta le soglie della sede dem per stringere un patto storico col nemico di sempre. Un rottamatore e un self made man che ha ridisegnato le geografie politiche del Paese. Ed è in nome di questa somiglianza che Renzi ha sempre provato ad ammaliare l’elettorato azzurro che col Cav in vita, però, ha puntualmente voltato le spalle all’ex segretario del Pd anche una volta uscito dalle mura del Nazareno, ritenendolo troppo poco affidabile. Senza Berlusconi a tenere le redini del comando tutto potrà rimescolarsi e ognuno proverà a giocarsi le sue carte nella variegata galassia centrista.

Ma volendo lasciare in pace la figlia Marina, più volte citata a sproposito negli anni come legittima erede politica in ordine dinastico, la più accreditata a prendere il posto del fondatore del centrodestra sembra una donna apparentemente lontana anni luce dalla narrazione antipolitica che è stata il marchio di fabbrica del leader: Giorgia Meloni. Figlia di una sezione di partito, a differenza di Silvio l’imprenditore “venuto dal nulla”, si è mostrata capace di tenere insieme una coalizione destinata a implodere dopo l’inatteso exploit elettorale del suo partito, Fdi, fino a poco tempo fa il soldato più piccolo di una corazzata guidata da Fi. Nonostante tra la premier e il Cav non sia mai scattata la scintilla in tanti anni di lavoro fianco a fianco, Meloni sembra aver imparato da Berlusconi la lezione più importante: mettere insieme ciò che per gli altri è inconciliabile. Così fece il “Berlusca” con Lega e Msi nel 1994, così prova a fare oggi da protagonista la nuova leader del centrodestra in Europa: costruire un’impensabile alleanza tra Popolari e Conservatori per stravolgere gli equilibri a Bruxelles. Per cogliere l’eredità di Silvio non bisogna stare necessariamente al centro, ma essere al centro dei processi.