La sensibilità istituzionale e sociale del proponente ( onorevole Giachetti) sulla liberazione anticipata speciale è apprezzabile. Lo Stato ha il dovere costituzionale di operare per la rieducazione del detenuto. Stante questo dovere primario, da un lato, dall’altro, la partecipazione del detenuto a quest’opera dovrebbe ritenersi presunta, cioè data per corrisposta, secondo le potenzialità di ciascuno, come prevede la legge, non essendo ammissibile che lo Stato possa rinunciarvi. Salvo il caso, ovviamente, in cui sia il detenuto stesso a rifiutarla.

Se così è, richiedere, ai fini della riduzione di pena, che il condannato abbia “dato prova di partecipazione” finisce per diventare un ossimoro, una contraddizione in termini, perché addossa al condannato l’onere di provare quello che lo Stato dovrebbe per lui fare; finendo per appesantire la procedura e allungare i tempi di attesa, di contro alle aspettative.

In sintesi, la liberazione anticipata potrebbe essere agganciata a un automatismo ed essere denegata nel caso in cui il detenuto si sia deliberatamente e ingiustificatamente sottratto al trattamento rieducativo, assumendo una condotta passiva o, peggio ancora, sanzionabile.

È perfettamente in linea con il ragionamento seguito la proposta di assegnare le competenze direttamente al direttore dell’istituto. Non parlerei di “concessione”, ma di “attribuzione” della liberazione anticipata. Questo non riduce i margini di discrezione, ma semplifica, fa risparmiare tempo prezioso. Nulla è scontato. Ma intravedere una luce in fondo al tunnel, eliminerebbe l’angoscia dell’attesa aleatoria, la paura di sbagliare, la depressione; darebbe ossigeno alle motivazioni e alle speranze personali. Nel disaccordo, deciderà il magistrato di sorveglianza.

Resta il dubbio che, alla fine, il sovraffollamento potrebbe riproporsi, se non si arriverà a un cambio di mentalità operativa da parte degli addetti ai lavori, i quali, come richiede la Corte di Giustizia Europea, devono tutti sentirsi partecipi di quell’opera di rieducazione, giudici di sorveglianza compresi.

Leggendo tra le pieghe delle statistiche diffuse dal ministero della Giustizia, ci si rende conto che alcune misure alternative alla detenzione carceraria funzionano a due cilindri, soprattutto a causa di una malintesa interpretazione del concetto di opportunità di reinserimento esterno, impropriamente fatto coincidere con la preesistenza di un’attività lavorativa da inquadramento sindacale. Una Chimera. Infatti, la legge non lo richiede, ma, operativamente, si finisce per richiederlo. E i numeri aumentano. Non miglior sorte è riservata al “lavoro all’esterno”, unica misura alternativa di competenza del direttore del carcere.

Queste criticità restringono, se non occludono, gli ordinari canali di deflusso fisiologico della popolazione carceraria meritevole, nel cammino verso un reinserimento sociale.

La semilibertà penitenziaria, che dovrebbe essere la regina di queste misure alternative, è relegata al ruolo di cenerentola, per i requisiti di pena assai poco elastici. Basterebbe rimodularne i limiti, per deflazionare il sistema.

Ciò non significa liberare allegramente i criminali, ma offrire, nei tempi e modi voluti dalla legge, opportunità di recupero reale in favore dei detenuti non pericolosi e pronti per essere sperimentati all’esterno, lasciando che in carcere continuino a espiare la loro pena coloro che invece lo sono ancora, ma garantendone una riabilitazione interna in condizioni di vita più dignitose. E più dignitose devono essere anche per chi in carcere ci lavora, se il rapporto detenuti e operatori si normalizza.

Un capitolo a parte costituisce la detenzione domiciliare riservata ai detenuti sotto i diciotto mesi di pena. Una scommessa contro il sovraffollamento che il legislatore pensava giustamente di vincere. Infatti, sembrava la soluzione vincente. E potrebbe esserlo tuttora. Purtroppo, appaiono ancora troppo ridotti i numeri dei detenuti ammessi.

Non sarebbe una buona notizia, se si accertasse dipendere ciò da farraginosità e lentezza burocratica nei passaggi tra carcere e magistrato di sorveglianza. Qui, la legge è stata tassativa: ha preteso massima velocità e semplificazione. Un monitoraggio ministeriale sulla gestione della misura ci direbbe come stanno le cose. Una eventuale prassi operativa difforme su vasta scala contribuirebbe al sovraffollamento e in misura incidente. Certo, in modo inconsapevole, ma sarebbe un vantaggio se ora ne fossimo tutti consapevoli.

Vivere in una qualsiasi comunità è già problematico di suo. Figuriamoci in un ambiente come quello carcerario, in costruzioni spesso fatiscenti, dove per stanza si intendono tre metri quadrati per ciascuno, con water talvolta a vista, acqua calda non sempre garantita, docce secondo turni a calendario, con l’aggravante della promiscuità, che obbliga a condividere lo spazio ridotto con chi capita, ai limiti della patogenicità. Dove devi fare in modo che la durata della pena non superi quella della salute della tua dentatura, altrimenti hai smesso di alimentarti. Dove sei per forza trattato come ammalato, anche se non lo eri, piuttosto che come uno che deve essere riabilitato, perché in quelle condizioni finisci per ammalarti veramente. E non è detto che vada molto meglio agli operatori interni.

Il sistema carcere è innanzitutto un’organizzazione chiamata ad assicurare, quotidianamente, ovviamente in condizioni di sicurezza, la qualità di vita e dei servizi di chi vi è detenuto e di chi vi lavora. Questa è la prospettiva di partenza. Gestirlo richiede un profilo tutt’altro che burocratico, ma moderne capacità managerali, affiancate a una illuminata competenza sulle dinamiche penitenziarie.

* già presidente Tribunale di Sorveglianza di Taranto