The French Intifada titola il britannico The Guardian commentando i furibondi scontri tra i giovani delle banlieue e la polizia francese, una frase ad effetto che però illumina bene i tratti di un conflitto quasi esistenziale tra la République e quei milioni di ragazzi che si sentono un corpo estraneo e come tale vengono trattati.

Sono in larghissima parte i figli, anzi i nipoti e i bisnipoti dell’immigrazione degli anni ‘60, quando la Francia importa manodopera dal Nordafrica, moltissimi gli edili che costruiscono i casermoni di periferia dove andranno a vivere con le loro famiglie, una generazione che si è integrata, anche se a fatica e ai livelli più bassi della scala sociale. E comunque sempre all’interno di un recinto impossibile da scavalcare. In pochi decenni le banlieue, concepite per offrire appartamenti a basso costo alle classi popolari, sono diventate un ghetto, un ricettacolo di esclusione e marginalità dove regna l’economia parallela del racket e dello spaccio di stupefacenti, dove la propaganda radicale islamista riesce ad aver facile presa ma anche un laboratorio della repressione di Stato e un redditizio terreno di campagna elettorale.

L’uccisione del 17enne Nahel da parte di un poliziotto con gli oltre 700 arresti è solo l’ultimo di una lunga catena di eventi che hanno segnato la storia recente della Francia. Da più di quarant’anni le banlieue vivono infatti una guerra a bassa intensità che, come un bubbone, esplode a intervalli regolari, spesso innescato dalla morte di un giovane per mano delle forze dell’ordine, a volte dalle decisioni di un sindaco o dalle dichiarazioni incendiarie di qualche politico irresponsabile, una guerra alimentata in modo endemico dalla povertà e dalla disoccupazione.

Il primo episodio di scontri organizzati risale al 1979, alla Grapiniere, quartiere-dormitorio ai margini di Lione, centinaia di giovani di origine maghrebina protestano contro la demolizione di alcune case popolari e affrontano la polizia. Tutta la regione lionese conosce un’ondata di violenze che prosegue lungo i primi anni 80, con i telegiornali delle 20.00 che mostrano le carcasse delle auto incendiate e scene da guerra civile libanese. Nel 1983 nella cité delle Minguettes, sempre nell’area lionese, Toumi Djaïdja presidente di un’associazione antirazzista è ucciso da un agente: stava soccorrendo un ragazzo aggredito da un cane poliziotto. Seguono settimane di tumulti ma anche di manifestazioni e marce bianche contro gli abusi delle forze dell’ordine. Le rivolte però contagiano tutto il Paese, il nord operaio, l’est, il sud e soprattutto l’Ille de France, la regione parigina, autentica polveriera sociale.

In quel periodo peraltro comincia a lievitare il consenso del Front National di Jean Marie Le Pen, specialmente nell’elettorato bianco che vive in banlieue, un’altra combinazione esplosiva, un’altra dolorosa frattura sociale e culturale.

Non basterebbe un’enciclopedia per raccontare tutte le rivolte metropolitane dell’ultimo mezzo secolo in Francia, di certo una delle più importanti e mediatizzate fu quella del 2005, provocata dall’allora ministro dell’interno Sarkozy che durante una visita a Clichy sous bois un quartiere “difficile” della capitale esclama: «Vi libereremo da questa feccia!». Anche in quel caso la guerriglia è durata per intere settimane con bilanci pesantissimi per l’ordine pubblico, ma Sarko vinse pienamente la sua scommessa, approdando due anni dopo all’Eliseo sulle ali della sua politica del pugno di ferro. Oggi il testimone viene raccolto da Marine Le Pen che alle prossime elezioni europee senz’altro utilizzerà tutti i ferri del mestiere per sfruttare l’ennesima emergenza nelle banlieue.