Gli sceneggiatori di Hollywood scioperano perché, a loro dire, sono sottopagati. Appartenendo alla categoria dei “beati loro” (guadagnano generalmente molto, fanno un lavoro creativo, vivono in un ambiente stimolante da tutti i punti di vista), la notizia potrebbe anche essere poco interessante. Ma la protesta ha un’altra motivazione ben più seria: hanno paura dell’intelligenza artificiale! Il sindacato degli sceneggiatori (Wga) teme la sostituzione (totale o parziale) del lavoro degli scrittori con quello effettuato da ChatGPT o da altri algoritmi specializzati di AI.

La California è la frontiera mondiale dell’innovazione tecnologica. Era facilmente pronosticabile che la sirena d’allarme giungesse proprio da lì. Meno facile, invece, immaginare che i primi a protestare fossero gli scrittori i quali, almeno nell’immaginario comune, fanno il lavoro più creativo del mondo. Inventano storie e ce le raccontano, sviluppando, fin dai tempi più remoti, la prima forma di realtà virtuale generata dall’uomo: la narrativa.

La verità è che siamo di fronte a una vera e propria rivoluzione copernicana. Nel processo di machine learning, l’AI impara velocissimamente, riuscendo a riprodurre gli stili degli autori più famosi. Eccolo il pericolo. E non solo in termini di posti di lavoro quanto in termini di pensiero critico. Non si vogliono ipotizzare scenari da Bmovie di fantascienza in cui le macchine sviluppano anche sentimenti e prendono il sopravvento sugli esseri umani. Qui è in gioco un aspetto esiziale per la nostra esistenza. Se persino un lavoro così creativo, come quello dello scrittore, potrà essere largamente sostituito dall’AI, rischiamo di appaltare la nostra intelligenza e la nostra immaginazione a sistemi artificiali. Intere categorie di professioni intellettuali potrebbero essere sostituite. Poco male, direbbe qualcuno: è la legge del mercato. Peccato, però, che non funziona così. O meglio, non ha mai funzionato così fino a oggi.

Noi non siamo l’insieme deterministico delle nostre esperienze passate e delle conoscenze accumulate, ma il racconto che, quotidianamente, ci facciamo di noi, del nostro passato. Noi siamo la possibilità di cambiare quel racconto (nel limite del principio di realtà si intende) ogni volta che riusciamo a vedere il mondo con occhi diversi. Noi siamo i film venuti male, le sentenze sbagliate, le scelte stupide che non rifaremmo mai. Perché sono quelle che ci fanno progredire. Limitare l’evoluzione dialettica del pensiero all’applicazione di un algoritmo significa smettere di pensare (cioè di vivere compiutamente) ed è un’ipotesi di futuro che atterrisce.

Recentemente Geoffrey Hinton, il massimo esperto mondiale dell’AI, si è licenziato da Google. Nella lettera di dimissioni ha messo in guardia dalla differenza tra l’intelligenza umana che è biologica, quindi unica, e quella artificiale che è basata su sistemi digitali replicabili all’infinito. Se affideremo all’AI una serie di attività intellettuali, rischieremo di delegare il racconto di noi stessi (personale e sociale) alle macchine. Smetteremo di essere capaci di sviluppare un pensiero complesso. Diventeremo “solo la copia di mille riassunti” per dirla con i versi di una vecchia canzone.

Ovviamente il problema non riguarda solamente gli sceneggiatori hollywoodiani, ma milioni di persone al mondo. Già esistono sistemi di AI in grado di scrivere ricorsi e da anni si parla di decisione robotica perlomeno delle cause seriali. Senonché sarebbe giusto chiedersi cosa fanno i giudici e gli avvocati? In cosa consiste davvero il loro lavoro? Scelgono le parole. Ascoltano, anzi assorbono il problema di una persona e lo traducono in una risposta giuridica. Poi lo raccontano, sotto forma di atti giudiziari, ad un giudice e alle parti in causa, nonché a chiunque abbia interesse a quella domanda di giustizia. Forse è una visione alta, elitaria delle professioni forensi: la traduzione del mondo reale in un sistema di pensiero. Ha a che fare con la natura ontologica del linguaggio o, volendo, con la natura taumaturgica delle parole. Mettetela come vi pare, ma giudici e avvocati sono (molti di loro inconsapevolmente) dei narratori.

Ecco cosa hanno in comune i giudici e gli avvocati italiani con gli sceneggiatori hollywoodiani: un pericolo condiviso che avvertono prima di altre categorie professionali. Il pericolo di far scrivere i nostri racconti, cioè la nostra storia a degli algoritmi. Il pericolo di perdere la facoltà di scelta delle nostre parole, per imperfette che siano. Nessuno vuole, né potrebbe, fermare il progresso tecnologico. Ma una pausa di riflessione deve imporsi. Recentemente il prof. Irti ha scritto che la ricerca dei punti di tangenza tra il diritto e la robotica suscita una sorta di “ansia filosofica”, quasi che la storia dell’uomo si trovasse a un nuovo inizio.

Ne discendono due reazioni contrastanti: da un lato, quella di chi avverte il rischio di una “disumanizzazione” della decisione; dall’altro, quella di chi ne intravede i vantaggi connessi ad esempio alla deflazione del contenzioso giudiziario. Entrambe le posizioni esprimono istanze razionalmente fondate, che meritano di essere considerate all’interno di una riflessione che elevi il dubbio a metodo dell’indagine. Il dubbio, il nome di questo giornale.